«L'idea delle ricchezze non è sempre la pietra fondamentale dell’incivilimento, perocché talvolta ne è conseguenza, the altra uno degli scopi parziali, talvolta uno dei mezzi... Si può quindi essere ben ricchi per comulazione di molti beni, ma senza esser civili». Così scriveva Ludovico Bianchini nel 1855, nel suo trattato Della Scienza del ben-vivere sociale.
Bianchini, economista napoletano come Antonio Genovesi, era convinto che l’economia fosse lo studio del ben-vivere sociale dei popoli. In questa sua frase ritroviamo una parola chiave, incivilimento, che fu cara a molti economisti italiani fino al Toniolo, come vi ritroviamo la consapevolezza del complesso rapporto tra ricchezza e l’esser civili. L’umanesimo europeo e italiano aveva sempre saputo, fin dalla civiltà romana, che non sempre la ricchezza è sinonimo di vita buona, che non tutte le ricchezze sono desiderabili, e che affinché i beni diventino ben-essere e ben-vivere occorrono molti altri ingredienti. Tanto che quando gli economisti del Sette e Ottocento dovettero scegliere un motto del loro programma civile, economico e politico, lo trovarono nella "pubblica felicità", non nella anglosassone "ricchezza delle nazioni" (Wealth of nations).
Interessante, poi, che la pubblica felicità e scienza del ben-vivere sociale fossero espressioni usate soprattutto da economisti napoletani e meridiani, molto meno da milanesi e veneziani. Il Sud-Italia aveva iscritto nel proprio Dna la dimensione sociale e pubblica del benessere. Una felicità che colpiva anche i grandi viaggiatori del Settecento. Tra questi Goethe, che visitando Napoli e Palermo ci ha lasciato pagine stupende: «I Napoletani ritengono possedere il paradiso, ed hanno una tristissima idea delle contrade settentrionali». «Non saprei descrivere con parole la luminosità vaporosa che fluttuava intorno alle coste quando arrivammo a Palermo. La purezza dei contorni, la soavità dell’insieme, il degradare dei toni, l’armonia del cielo, del mare, della terra... chi li ha visti una volta non li dimentica per tutta la vita». Ma perché questa letizia, questa "armonia del cielo e del mare", dopo secoli non riesce a tradursi ancora in ben-vivere?
La classifica che oggi pubblichiamo su Avvenire, che, non a caso, abbiamo voluto associare alla categoria di ben-vivere, anche se fa vedere cose diverse da altre classifiche analoghe, ci continua infatti a dire che la vocazione meridiana dell’Italia alla pubblica felicità e al ben-vivere non si è ancora compiuta. In cima alle classifica troviamo sempre le province del Nord, e per incontrare qualche città sotto il fiume Tronto occorre scendere molto in basso e in tutte le classifiche. Perché non solo nel Pil ma anche nel ben-vivere e nella responsabilità civile dei territori l’Italia è spaccata in due? Perché il Sud nel suo insieme sembra avere meno ricchezza e meno felicità del Centro e del Nord?
Forse perché anche noi continuiamo ad usare indicatori di ben-vivere che non catturano abbastanza il genius loci delle genti del Sud e, in generale, di chi vive nei villaggi e non in città, delle periferie e delle montagne. Anche la nostra classifica, pur partendo da diverse domande di ricerca sulla qualità della vita, continua infatti ad usare numeri e misure oggettive del benessere, i soli che avevamo a disposizione. Non abbiamo chiesto agli italiani delle diverse province: "quanto ti senti felice?", né "sei soddisfatto con la tua vita?". Forse, con simili domande avremmo ottenuto classifiche ancora diverse – e ci ripromettiamo di estendere in futuro la nostra ricerca anche ad indicatori soggettivi, anche perché chi vive a Matera ha dei buoni motivi per non considerarsi 77 posizioni al di sotto dei milanesi. Abbiamo usato anche noi strumenti che poco catturano dimensioni fondamentali del benessere come la solitudine, la compagnia degli anziani, l’invecchiare vicino ai nipoti, l’amicizia e la convivialità, i beni relazionali.
Al tempo stesso, dalla nostra ricerca emerge con forza un antico messaggio. La bellezza dei paesaggi, l’allegrezza del genius loci, la presenza dei bambini, il clima, il sole e il mare, sono senz’altro dimensioni importanti ed essenziali del benessere, che continuiamo tutti a trascurare. Ma quando ci alziamo al mattino e non riusciamo a lavorare senza emigrare, quando non abbiamo una sanità di qualità e per una operazione delicata dobbiamo andare al Nord, quegli stessi paesaggi e orizzonti luminosi si scolorano, diventano meno brillanti, e come il re Mida moriamo di fame pur circondati dall’oro. Sempre nel Settecento, la scuola francese dei Fisiocratici ci disse che la ricchezza più importante di un Paese non è uno stock (patrimoni naturali, materie prime…) ma un flusso, cioè il reddito che quei patrimoni riescono a produrre.
Ciò vale anche per il ben-vivere: gli stock, i patrimoni, i paesaggi, le pre-condizioni e potenzialità per vivere bene, non diventano ben-vivere effettivo senza la capacità civile e politica di trasformarli in flussi di ben-vivere e ben-essere. Le potenzialità di benessere del Sud continuano ad essere grandi: e noi, come gli illuministi del settecento, continuiamo a sperare che quel grande potenziale diventi ben-vivere concreto, felicità pubblica e felicità privata; e continueremo ad affinare le nostre tecniche di analisi e di misurazione per vedere dimensioni del benessere e del malessere che ancora ci restano celate.