Gianluca Stafisso, l'italiano trovato morto nel suo letto in un centro per stranieri che il Giappone definisce "irregolari"
Non era la prima volta che veniva arrestato. Ma stavolta Gianluca Stafisso, un italiano di 56 anni da molto tempo residente in Giappone e da un paio di anni “senza fissa dimora” (ha “vissuto” sotto un ponte, in periferia di Tokyo) non ce l’ha fatta. Dopo “appena” un paio di settimane di una ennesima, potenzialmente indefinita detenzione – e probabilmente di un sempre più inevitabile rimpatrio, che lui per vari motivi rifiutava – la mattina dello scorso 18 novembre l’hanno trovato morto nella sua branda. “Apparente suicidio”, hanno scritto i giornali locali, anche se le nostre autorità diplomatiche, che non nascondono un certo malumore per l’accaduto e per la difficoltà di comunicazione con le autorità locali, aspettano ancora i risultati ufficiali dell’autopsia.
Qualcuno teme – come purtroppo è avvenuto in passato – che il ritardo sia dovuto al tentativo di eliminare eventuali discrepanze sui tempi e sulle circostanze, onde evitare nuove condanne per negligenza e omissione di soccorso, in un momento in cui la gestione dei centri di detenzione per stranieri “irregolari” è sotto accusa. Dal 2017 sono infatti 18 i decessi avvenuti all’interno di questi centri (17 in tutto il Paese, e attualmente ospitano un migliaio di “detenuti”), di cui 7 suicidi. Lo scorso settembre il tribunale di Tokyo, con una sentenza destinata a fare storia, ha riconosciuto la responsabilità delle autorità nel non avere soccorso in tempo un cittadino del Camerun, stabilendo un importante precedente e disponendo un risarcimento pari a circa 10mila euro.
«Non è molto, certo, rispetto al valore di una vita – spiega Takahashi Wataru, uno degli avvocati più attivi nel difendere i diritti dei sans papier locali – ma è un enorme passo avanti. Per la prima volta è stata riconosciuta una responsabilità oggettiva da parte delle istituzioni nel garantire la sicurezza dei detenuti, oltre naturalmente le eventuali colpe dei singoli funzionari». È quello che sostengono anche le nostre autorità diplomatiche, alle quali il nostro cittadino si era sì rivolto in passato per lamentare una serie di soprusi subiti dalla sua ex moglie giapponese (e che lo avevano a suo dire ridotto ad una situazione di totale indigenza) ma delle quali al tempo stesso diffidava perché temeva potessero, d’accordo con le autorità giapponesi, organizzare un rimpatrio forzato. Che lui, convinto di poter in qualche modo recuperare una serie di presunti crediti, non voleva assolutamente.
Resta il fatto che Gianluca Stafisso, dal 25 ottobre scorso, era in stato di detenzione: le autorità giapponesi avevano il dovere di garantirne la sicurezza e la salute, anche contro la sua volontà. E una volta fallito questo dovere morale e giuridico, è giusto pretendere di capire come siano andate le cose e accertare eventuali responsabilità. «I centri di detenzione non sono carceri – spiega un altro avvocato, Shoichi Ibusuki, che nei mesi scorsi ha curato gli interessi della famiglia di Wishma Sandamali, una giovane donna dello Sri-Lanka che si era rivolta alla polizia per denunciare violenze domestiche ritrovandosi poi rinchiusa in un centro di detenzione dove è morta per mancanza di cure mediche, dopo aver invano chiesto di essere portata in ospedale – ma spesso la situazione è peggiore. Sono istituzioni gestite direttamente dal governo e dalla polizia, nella più assoluta arbitrarietà, senza alcuna certezza sui tempi e le condizioni di un eventuale rilascio. Ci sono detenuti, che tali non dovrebbero essere, perché si tratta di richiedenti asilo, di migranti, non di delinquenti, che ci restano per anni, altri che entrano ed escono, altri che pur chiedendo di starci magari perché non hanno alcun mezzo di sostentamento che vengono invece respinti».
Il massimo dell’arbitrarietà – e se vogliamo della crudeltà istituzionale – si è raggiunto negli ultimi mesi del 2021, in piena pandemia. Preoccupati per l’aumento dei contagi e non attrezzati per gestire una eventuale situazione di emergenza, le autorità hanno “liberato” migliaia di detenuti, consegnando loro un permesso provvisorio (karihomen) che li autorizzava a restare in Giappone ma vietando loro di lavorare e senza alcuna assistenza sanitaria. Una situazione pressoché ignorata dall’opinione pubblica ma che è stata di recente denunciata dal documentario Ushiku (dal nome di uno dei centri di detenzione alla periferia di Tokyo, qui il trailer: tinyurl.com/556p447u), di Thomas Ash, un videomaker americano che per molti mesi è riuscito ad intervistare segretamente alcuni detenuti, violando le regole del centro ma con il consenso degli intervistati, e che contiene anche drammatiche scene di seiatsu (“sottomissioni”, leggi pestaggi) registrate dalle telecamere interne e ottenute grazie alla richiesta degli avvocati che difendono le vittime dei soprusi o le loro famiglie. «Io sono stato sia in carcere che nel centro di detenzione – racconta Deniz, un cittadino turco di etnia curda, che da anni attende il riconoscimento della status di rifugiato e che ora è stato rilasciato sulla parola con il karihomen ma senza possibilità di lavorare e senza diritto all’assicurazione sanitaria – e debbo dire che il carcere era molto meglio. C’erano delle regole, e se le rispettavi eri trattato come un essere umano. A Ushiku non c’è alcuna certezza, alcun rispetto, sei considerato un semplice oggetto. Le guardie ti chiamano gara (“quella cosa lì”), creano e applicano regole sul momento, e guai a chi le viola. Manca nel modo più assoluto qualsiasi forma di umanità».
È quanto sosteneva Sakae Menda, un condannato a morte che dopo 34 anni di isolamento venne dichiarato innocente: «Il sistema giapponese mira a strozzare l’anima, prima di uccidere il corpo di un detenuto». Deniz, che nel corso della sua lunga detenzione ha tentato più volte il suicidio, concorda: «Molti di noi non riescono a dormire, la notte, tra i propri fantasmi e le urla altrui, ma tutto quello che ti danno sono pesanti farmaci ansiolitici. Nessuna assistenza medica, nessun supporto psicologico, la maggior parte di noi si sente sola e abbandonata. Quando ho saputo del suicidio del vostro cittadino non mi sono per niente meravigliato, anzi».
Rispetto alla situazione in Europa – e in altre parti del mondo – il Giappone potrebbe sembrare un’isola felice. Niente sbarchi di massa, niente rischio “invasioni”, solo poche centinaia di richiedenti asilo, che vengono concessi con il contagocce e dopo anni di lunghe e complicate indagini. Gli ultimi dati parlano di circa 20 mila domande, di cui appena una ventina, l’1%, vengono accettate. A fronte di circa 2 milioni di stranieri che vivono nell’arcipelago, “solo” 60mila sono in qualche modo “illegali”, termine con il quale le autorità locali indicano però qualsiasi forma di violazione delle leggi sulla residenza. Di qui la diffusa – e di fatto giustificata da leggi poco trasparenti – discrezionalità, se non vera e propria arbitrarietà, con cui vengono gestiti i vari casi.
«Di fatto si può essere arrestati e detenuti a piacimento per un semplice overstay (visto scaduto) o costretti a condurre una vita di stenti, senza alcun diritto né assistenza sanitaria in attesa che venga accolta la domanda di asilo – spiega l’avvocato Ibusuki – ma anche essere autorizzati a lavorare in certi settori, in condizioni proibitive e sotto il continuo ricatto di poter essere espulsi». Una forma di “ingegneria immigratoria” che il Giappone sta di fatto portando avanti da anni per fronteggiare da un lato il calo demografico e la domanda di mano d’opera, dall’altro l’esigenza di rispettare – se non, come durante il governo di Shinzo Abe, di alimentare – la presunta omogeneità del popolo giapponese evitando il rischio di una lenta, ma probabilmente inevitabile “contaminazione”.