Da Tirana si continua a emigare ma l'Albania oggi è anche una meta per nuovi "immigrati"
«Non sembra un albanese». Quante volte se l’è sentito dire Rando Devole. Questo sociologo di Tirana lavora e vive da anni a Roma, ma il commento, così frequente negli anni Novanta, lo irrita ancora: «Esattamente, a cosa sembra un albanese?». Il suo risentimento cela le speranze e i sensi di colpa di un popolo ancora costretto ad emigrare per avere un lavoro dignitoso, una sanità che funzioni e una politica che non risolva le proprie faide nella violenza. A metà febbraio, i democratici hanno tentato l’assalto al Parlamento per abbattere il governo Rama, proprio come aveva fatto il partito socialista nel 2011, con Berisha. Si litiga per controllare uno degli apparati pubblici più corrotti dei Balcani e conquistare un posto al tavolo del negoziato per l’adesione dell’Albania all’Ue: «Fare dell’Albania come il resto dell’Europa» urlavano gli studenti in piazza Skanderbeg, mentre buttavano giù la statua di Enver Hoxha; trent’anni dopo la profezia non si è compiuta e anche e l’alternanza dei governi resta più un fatto di poltrone che di programmi. I democratici hanno attratto gli investimenti esteri sacrificando le tasse e i diritti dei lavoratori; i socialisti fanno lo stesso. Berisha ha aperto il mercato delle concessioni pubbliche; Rama lo gestisce, incurante del malcontento popolare per tasse, bollette e pedaggi in aumento. Il prezzo della 'legalità europea' lo paga il popolo: interi villaggi del Sud si sono già svuotati.
Se non si stanno ripetendo le scene degli anni Novanta, dipende dal fatto che esiste una diaspora albanese di 1,6 milioni di persone (il 36% della popolazione) che accoglie, filtra e indirizza chi parte. L’albanese che se ne va non sembra più albanese perché emigra in silenzio. Ce la ricordiamo l’Italia in cui tutti gli albanesi sembravano albanesi: a migliaia si riversavano sulle coste pugliesi, mentre Amelio raccontava Lamerica nei cinema e i soldati dell’operazione Pellicano salvavano dalla fame chi restava in patria. Per gli italiani il comunismo non è finito con la glasnost o con il muro di Berlino, ma quando, l’8 agosto del 1991, il mercantile Vlora scaricò a Bari ventimila albanesi affamati. Cominciava la globalizzazione dei barconi. Oggi, anche Tirana non sembra più albanese: pullula di cantieri e centri commerciali. «È cambiata la nostra classe imprenditoriale – argomenta Bilbil Kasmi, presidente dei Sindacati liberi e indipendenti di Albania (Sauatt) –, le privatizzazioni hanno sviluppato l’agricoltura, il turismo e l’industria agroalimentare, anche se i giovani continuano a sperare in qualcosa di più e se ne vanno. Verso l’Italia, ma soprattutto verso la Germania e il Nord Europa».
Alla fuga di massa è subentrata una migrazione selettiva. In Italia, i permessi di soggiorno sono in calo. Se ne contano 442mila, seimila meno dello scorso anno, venticinquemila meno dell’anno prima. Restiamo la porta d’Europa ma non siamo più Lamerica. Per diverse ragioni. Negli ultimi anni centomila albanesi hanno ottenuto un passaporto italiano – circa il doppio dall’inizio dell’immigrazione – diventando invisibili al radar statistico. Continuano ad andarsene gli studenti «perché lo Stato ha disinvestito – spiega Kasmi – e non a caso la nostra collaborazione con l’associazionismo italiano, come il Movimento cristiano lavoratori, si concentra sui corsi di formazione per i giovani, allo scopo di instradarli verso i settori più promettenti, come turismo e produzioni agroalimentari ». Ogni anno diecimila ragazzi emigrano per motivi di studio: è un mercato talmente florido che a Tirana si tiene una fiera per presentare l’offerta di 40 atenei italiani, ma è destinato a cambiare. Entro il 2019, infatti, potrebbe concludersi l’iter per l’equiparazione dei titoli di studio schipetari a quelli italiani (e quindi a quelli europei): dopo di che, si partirà laureati, ma si continuerà a partire.
Nel 2016, sono entrati in Italia 17.517 albanesi, il 7,7% del totale (secondi solo ai nigeriani): la presenza però è in calo (-4.1%) perché altrettanti tornano a casa e molti ripartono subito per il Nord Europa. I permessi di soggiorno per motivi familiari sono più numerosi (68,9%) di quelli concessi per lavorare e, tra tutti i soggiornanti stranieri, gli albanesi hanno bassi tassi di occupazione, soprattutto se si tratta di donne (36,6%), si concentrano nei servizi (43,4%) e nei piccoli comuni e sono la comunità con più contratti stagionali (19,8% tra gli extracomunitari) e più artigiani (25,1%). Proprio perché 'non sembrano albanesi', particolarmente nel Mezzogiorno d’Italia, alimentano il sommerso.
«L'Italia non è più Lamerica – conferma Devole – soprattutto perché si guarda ad altri Paesi, ma si continua a partire». Malgrado le stime della crescita economica sfiorino il quattro per cento, il 56% degli albanesi cerca ancora di emigrare. L’Italia non attrae più come una volta ma in Albania il salario minimo è ancora di 300 euro e un pensionato deve campare con cento: «Inutile farsi illusioni – sospira Kasmi – finché il rapporto resta uno a uno, cioè il numero dei pensionati e quello dei lavoratori si equivalgono». Diverso il discorso se a pagare è l’Inps: le città più sviluppate, come Valona o Tirana, possono diventare il buen retiro per i pensionati italiani. Anche se il flusso non è ancora importante, i patronati italiani si stanno organizzando per soddisfare quella domanda: «Collaboriamo con i sindacati locali da un decennio – conferma Piergiorgio Sciacqua, dirigente del Movimento Cristiano Lavoratori – e stiamo aprendo un centro servizi nel centro di Tirana».
Se l’emigrazione è più silenziosa che in passato, al contrario la presenza italiana nel Paese delle Aquile viene sopravvalutata e amplificata: lo storytelling del nuovo Eldorado fa comodo sia ai politici albanesi – nelle aree interne, la tv italiana che racconta il «Paese delle grandi opportunità » è un grande elettore – e a quelli europei che lavorano per l’adesione del Paese all’Ue. Secondo questo racconto 19mila nostri connazionali si sono trasferiti stabilmente in Albania per creare lavoro e ricchezza. Nella realtà hanno provato a delocalizzare e a sfruttare le debolezze di un Paese corrotto e affamato. «Le imprese italiane spesso tendono a disapplicare il contratto collettivo di lavoro, ad esempio nella pesca e nel settore minerario, confidando sul fatto che il diritto del lavoro in Albania non tutela i lavoratori come in Italia. E lo stesso si può dire per la difesa dell’ambiente» ammette Kasmi. Secondo il Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes in Albania gli italiani muniti di permesso di soggiorno al primo luglio del 2018 erano solo 2.389. «La retorica della nuova terra promessa – sostiene Devole – non regge al confronto con i numeri. La narrazione funge da ansiolitico per gli albanesi e risponde ad esigenze diverse dei due Paesi, il primo alle prese con l’affanno di entrare nell’Ue, il secondo alle prese con l’ ansia dell’immigrazione». A crescere è invece «la mobilità bidirezionale tra le due sponde dell’Adriatico: gli italiani in Albania aumentano anche senza permesso di soggiorno esattamente come una parte del flusso migratorio dall’Albania all’Italia, che segue le esigenze familiari e quelle del lavoro stagionale».
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