È sempre più in difficoltà il sistema delle organizzazioni internazionali, mentre si rafforza la tendenza al fai-da-te e al “prima noi degli altri” dei vari nazionalismi, sovranismi e populismi Gli Stati Uniti trattano i loro naturali alleati europei come concorrenti da battere, salvo esigere che si allineino sulle loro posizioni - Archivio Avvenire
Una “nuova guerra fredda” tra Stati Uniti d’America e Cina. Fa paura anche solo evocarla. Purtroppo, però, il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ne ha parlato apertamente e a Washington se ne discute da tempo. Dopo il Covid–19 il conflitto si è aggravato. Ora un documento riservato sulla strategia americana nel mondo definisce la Cina «principale nemico degli Stati Uniti», più della Russia e di chiunque altro, verso cui adottare un «approccio competitivo».
Ciò non significa necessariamente la guerra – e che si senta il bisogno di precisarlo è un altro segno inquietante –, ma impone nei confronti della Cina quattro priorità: «Proteggere il popolo americano, la patria e il nostro modo di vivere; promuovere la prosperità americana; preservare la pace attraverso la forza; accrescere l’influenza americana ». Insomma, la Repubblica popolare cinese viene sfidata sul terreno dell’economia, dei valori e della sicurezza.
Il documento segna l’abbandono definitivo della linea americana, avviata dalla missione Kissinger in Cina del 1971, che ha aiutato questo Paese a uscire dalla “rivoluzione culturale” e favorito la stagione di “riforme e apertura” di Deng Xiaoping. Contrariamente a molte aspettative, il capitalismo non ha portato in Cina la democrazia occidentale. Ma l’impegno americano per coinvolgerla nella cooperazione internazionale ha prodotto risultati importanti sul piano dei rapporti tra i popoli e delle relazioni interculturali, fatto che, in prospettiva storica, conta più di tutti gli altri. Tale impegno ha suscitato un inedito mito americano in Cina – anche i figli della nomenklatura comunista cinese vanno a studiare negli Usa – e creato un originale universo sino–americano (quello raccontato nel film “The farewell. Una bugia buona”). Gli Stati Uniti, insomma, hanno saputo avvicinare Oriente e Occidente come mai in precedenza. Con una politica che seguiva un disegno e di cui ha beneficiato il mondo intero. Ma, improvvisamente, i vertici americani hanno rimosso tutto questo, decidendo che contavano solo la crescita economica cinese, il quasi monopolio di Huawei sul 5G, i successi nel campo dell’intelligenza artificiale ecc. Hanno stabilito che la Cina è andata troppo avanti, che è diventata troppo pericolosa e che va fermata. E così hanno accantonato ciò che di buono avevano fatto in precedenza, per scegliere la via dello scontro.
Ai tempi dell’impero sovietico a confrontarsi erano blocchi contrapposti di Paesi Oggi la contesa si disputa tra due Stati alimentando così il disordine mondiale
Questa “nuova guerra fredda” riflette i grandi cambiamenti intervenuti tra la “vecchia guerra fredda” e oggi. Dopo il 1989 – ma è una tendenza cominciata prima – il mondo è diventato sempre più multipolare. Si è passati prima al G7, poi al G20 senza però trovare modalità di coordinamento efficaci per favorire decisioni comuni sui dossier mondiali più rilevanti, dall’ambiente alla salute, dagli armamenti a tanti altri, per non parlare dell’economia. Oggi il “disordine mondiale” mette sempre più in difficoltà il sistema delle organizzazioni internazionali e la cooperazione tra gli Stati, mentre si rafforza la tendenza al fai–da–te e al “prima noi degli altri” dei vari nazionalismi, sovranismi e populismi. Prevalgono le relazioni bilaterali di corto respiro, basate su interessi immediati e incentrate su convergenze temporanee. E, a volte, fortemente conflittuali. Anche la “nuova guerra fredda” tra Stati Uniti e Cina rientra nel modello delle relazioni bilaterali: non è un nuovo G2 capace di strutturare l’insieme delle relazioni internazionali come ha fatto per molti anni il rapporto Usa–Urss.
Lo conferma una differenza decisiva tra “vecchia” e “nuova guerra fredda”: stavolta la contrapposizione non è tra due blocchi ma due Stati. Tra il 1947 e il 1989 Stati Uniti ed Urss sono stati gli indiscussi protagonisti della scena mondiale, ma le due superpotenze non hanno agito in modo solitario, bensì come Paesi–guida di grandi alleanze: la Nato e il Patto di Varsavia. Entrambe hanno stabilito forti rapporti con una serie di Paesi alleati, esercitando una indiscussa supremazia, ma coinvolgendoli nelle loro decisioni e nei loro progetti di sviluppo, seguendo un disegno: contenere il blocco nemico e stabilizzare l’ordine mondiale. Oggi, invece, gli Stati Uniti trattano i loro naturali alleati europei come concorrenti da battere, svalutano la Nato e osteggiano l’Unione Europea, salvo poi esigere che gli europei si allineino sulle loro posizioni per quanto riguarda la Cina e altro.
Nel caso cinese pesa invece quella “politica tributaria” di cui ha parlato Benoît Vermander su “La Civiltà Cattolica”, recentemente sbarcata in Cina con un’edizione in mandarino molto apprezzata. Il classico sistema tributario attuato dalla dinastia Qing concedeva favori agli Stati che si riconoscevano dipendenti dalla Cina. Tali favori oggi possono includere investimenti, acquisti preferenziali, aiuti tecnici, supporti diplomatici e così via, in cambio di un allineamento alla politica di Pechino. È un sistema efficace verso Paesi più piccoli, che però mal si adatta a molti protagonisti medio–grandi del mondo multipolare.
Ma neanche le superpotenze possono realizzare grandi disegni di politica estera senza alleati che, anche se non su un piano di parità, siano però coinvolti nell’elaborazione del disegno complessivo e consultati nelle decisioni principali. E infatti oggi non si vedono in giro grandi disegni. Il caso di Hong Kong è eloquente. Entrato in crisi il modello “un Paese due Sistemi” gli Usa hanno agitato il problema per dare fastidio a Pechino, ma senza realizzare iniziative efficaci per aiutare davvero gli abitanti di Hong Kong. Com’era prevedibile, questa interferenza ha rafforzato la determinazione delle autorità cinesi di aumentare il loro potere sull’ex colonia britannica. Ora gli Stati Uniti si preparano a chiudere il cerchio: se verrà meno l’autonomia di Hong Kong, saranno abolite le condizioni vantaggiose che favoriscono la presenza nell’isola di molte imprese americane. Un colpo durissimo non solo all’economia, ma anche alla libertà di Hong Kong.
Il tramonto del modello “un Paese, due Sistemi”, però, sarà una sconfitta per tutti, compresi i due contendenti. Gli Stati Uniti mostreranno di non saper/voler intervenire nella sfera cinese e la Cina perderà credibilità e influenza nel resto del mondo. Il problema si ripresenterà a breve con Taiwan, che spinge per affermare la sua indipendenza. Nel caso Pechino giunga fino a intervenire militarmente per difendere la sua politica di “una sola Cina”, gli Stati Uniti faranno la guerra per Taiwan? Sarebbe potenzialmente catastrofico. Non la faranno? Taiwan passerebbe sotto la sovranità di Pechino nel modo peggiore e la Cina sarà sempre più in difficoltà a svolgere sulla scena mondiale il ruolo che le spetta.
Può darsi che in quanto si sta minacciando ci sia molta tattica e molto, persino troppo per la politica di una nazione– guida, dipenda dalle prossime elezioni americane. Di certo, però, in questa “nuova guerra fredda”, i due contendenti mostrano un deficit di politica estera. Almeno, per come la intendiamo noi europei. Già, l’Europa che, nel mondo multipolare, dopo Stati Uniti e Cina conta – se unita – un po’ più degli altri. Quando lo scenario internazionale si polarizza intorno a due contendenti, tutti subiscono spinte fortissime a prendere posizione per l’uno e contro l’altro. Per noi, italiani ed europei, appare ovvio scegliere gli Stati Uniti, per vicinanza storica, affinità, legami. Ma prima di scivolare dentro la spirale nel conflitto sino–americano conviene chiedersi se convenga favorire involontariamente una crescita delle tensioni internazionali. Gli europei hanno infatti un genio loro proprio che non dovrebbero dimenticare: la capacità di pensare al mondo nel suo complesso, pur vivendo nel più piccolo dei continenti. Tra Stati Uniti e Cina, conviene anzitutto scegliere per l’Europa. Chissà che, facendolo, non ci riesca di aiutare anche gli altri a pensare più in grande.