Gentile direttore,
le scrivo questa lettera chiedendole, per una volta, di omettere la mia firma per non "compromettere" persone di cui parlo e alle quali non ho chiesto il permesso. Negli ultimi dieci anni da parroco sono stato molte volte in due diverse case circondariali a visitare detenuti che risiedevano nella mia parrocchia.
Non è così facile entrare in carcere. Devi chiederlo al direttore e attendere risposta. Ho imparato che è meglio non indicare nella domanda «un colloquio», perché altrimenti la volta successiva devi rifare la domanda. Passato questo scoglio, anche l’entrata in carcere è alquanto complessa: ti annunci, controllano che ci sia l’autorizzazione, consegni il tuo documento, svuoti le tasche (una volta mi hanno anche accompagnato in un piccolo locale per perquisirmi) e dopo, scortato da una guardia, ho oltrepassato la prima, la seconda, la terza e la quarta porta dove finalmente ho potuto stare con il mio parrocchiano di turno (visto che le persone rinchiuse che ho visitato in questo tempo sono state tre).
Tutte e tre queste persone erano in carcere per motivi legati alla "delinquenza comune", cioè furti d’auto o in abitazioni private. Processati, condannati e incarcerati perché non potevano permettersi avvocati pronti a portare la sentenza in Appello e in Cassazione sicuri che nel frattempo sarebbe arrivata la prescrizione. Questi sono andati in carcere subito. E quando per uno di loro ho chiesto "l’agibilità familiare" (uso questo termine per indicare la richiesta dei domiciliari) per permettere alla moglie di andare al lavoro senza dover lasciare incustoditi i figli piccoli in una roulotte (sì, i miei parrocchiani in questione erano di etnia sinti, "zingari" come li chiamiamo noi), non ho ricevuto risposta.
Ma quella donna non si è disperata, ha cercato di custodire il suo lavoro accettando l’aiuto dei "gaggi" (è così che loro chiamano noi). A chiedere "l’agibilità familiare" di quel ladro d’auto c’erano sua moglie, i suoi due figli e il suo parroco, praticamente tutti quelli che in qualche modo gli volevano bene e facevano il tifo per lui, sicuri che se fosse tornato a casa, il ladro non l’avrebbe più fatto, se non altro per amore di coloro che avevano continuato a volergli bene. Nonostante questo, quell’uomo è rimasto in carcere fino alla conclusione della pena.
Quando andavo a trovarlo mi ringraziava per quello che facevamo per la sua famiglia e per lui, ma mi diceva: «È giusto che sia qui perché devo pagare il mio debito». Devo confessare che mi fa tanta specie dover ogni giorno leggere pagine intere di dibattiti circa la vicenda di un altro "ladro" che ha frodato lo Stato e gli azionisti delle sue imprese, che è stato giudicato colpevole in tutti e tre i gradi di giudizio previsti dalla legge, per il quale si chiede "l’agibilità politica", cioè la possibilità di guidare il suo partito, perché 10 milioni di italiani lo hanno votato. Il "mio" ladro aveva rubato molto meno di quest’uomo e aveva una situazione familiare molto precaria, ma nonostante tutti i suoi cari avessero chiesto per lui "l’agibilità familiare", questa gli è stata negata e nessun giornale ha pubblicato tale notizia.
È vero che "tutti" in questo caso voleva dire quattro persone, di cui due minori e un prete, davvero poca cosa rispetto a 10 milioni, ma 10 milioni non sono neanche la metà di tutti gli italiani! Perché quest’altro "ladro" non può accettare anche lui che «la legge è uguale per tutti» e che «le sentenze vanno accettate», e dire ai suoi 10 milioni di amici: «È giusto che sia qui perché devo pagare il mio debito»? Tanto, lui, in carcere non ci andrà lo stesso, ma forse potrebbe capire che nel rispetto delle sentenze si ritrova anche l’onestà perduta. A lei e a tutta la redazione di "Avvenire" rinnovo la mia stima.
Lettera firmata
E io rinnovo la mia stima a lei, caro e reverendo amico. Niente è più efficace della vita vera per spiegare che le cose complicate della (e dalla) politica potrebbero, in realtà, essere molto lineari e semplici.