Ansa/Us Gdf
La storia dell’emigrazione italiana, impressa nella memoria collettiva e di quasi tutte le nostre famiglie, è anche la storia dei religiosi e delle religiose che affiancarono i migranti consegnandoci una preziosa eredità. Tra i tanti, possiamo ricordare i nomi di Geremia Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona, che promosse la formazione di un corpo di missionari attivi in Europa e nel Levante; madre Francesca Saverio Cabrini (1850-1917), fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore e ancor oggi ritenuta, da tanti americani, uno dei grandi pionieri della nazione; Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza, che sarà proclamato santo il 9 ottobre insieme ad Artemide Zatti (18801951), coadiutore salesiano, emigrato italiano in Argentina.
Fondatore dei Missionari di San Carlo, noti come Scalabriniani (1887), della Società di patronato San Raffaele (1889) e della Congregazione delle missionarie di San Carlo (1895), Scalabrini è una figura esemplare di quella attenzione speciale per i migranti da sempre presente nel magistero della Chiesa. Così come quella degli Scalabriniani è la vicenda emblematica di una congregazione nata per assistere i propri connazionali (gente che spesso parlava lo stesso dialetto, come nel caso delle centinaia di missionari veneti sparsi per il mondo) e giunta a occuparsi dei cattolici di ogni provenienza e, sempre più spesso, dei fedeli di altre religioni: un’evoluzione percorsa da inevitabili fatiche, ma capace di dar corpo a quell’universalismo che è la cifra distintiva del cristianesimo.
Nella sua storia ultracentenaria, il mondo scalabriniano ha saputo leggere, interpretare e rispondere a molte delle sfide che hanno accompagnato l’avvento della globalizzazione e l’accelerazione della mobilità umana affiancando – sulle orme del fondatore – molteplici ambiti di impegno: lavoro pastorale e assistenza ai migranti e alle loro famiglie; ricerca e divulgazione (anche attraverso i centri studi presenti nei diversi continenti); formazione di laici e religiosi; mobilitazione per i diritti dei migranti e collaborazione con agenzie governative e attori della società civile. Tuttavia, è proprio in frangenti come quello contemporaneo che ci è dato di cogliere la straordinaria attualità del pensiero e dell’opera di Scalabrini, sia sul piano pastorale sia su quello politico, sia ancora su quello scientifico. Oggi come allora viviamo infatti un cambiamento d’epoca che investe l’organizzazione dell’economia, i rapporti tra Stati, la concezione della democrazia, il ruolo della religione nella sfera pubblica, la morale privata e sociale e, non da ultimo, le vite dei migranti, paradigmi viventi dei costi umani, sociali e morali di un’economia predatoria e di una politica che ha perso di vista il bene comune.
Profondamente attuale è innanzitutto la sua diagnosi dei fenomeni migratori, inquadrata nella più ampia 'questione sociale': questione di giustizia, di diritti umani, di modelli di sviluppo. Di più, proprio attraverso l’esperienza dei migranti è possibile cogliere le contraddizioni e le criticità della società che, all’epoca della prima industrializzazione, trovavano nell’emigrazione una insostituibile valvola di sfogo. È significativo osservare come, negli stessi anni in cui Scalabrini esprimeva apprensione per le sorti di quanti si consegnavano nelle mani dei «sensali di carne umana», la riflessione sociologica, allora ai suoi albori, parlava di una società anomica il cui corollario è la difficoltà per molti – specie dei più vulnerabili – di trovare un proprio posto nel mondo. Da questione economica e sociale, le migrazioni divengono così questione civile, politica, morale, religiosa.
Anticipando le stesse scienze sociali, Scalabrini individua i molteplici fattori alla base della 'scelta' di migrare: le logiche di sfruttamento e della ricerca del profitto che alimentano l’industria della migrazione, le spinte all’emulazione, la mobilità umana come componente costitutiva dei processi di globalizzazione e, più in generale, della storia dell’uomo. Denunciando le innumerevoli violazioni dei diritti e della dignità delle persone che si consumano lungo tutte le fasi del percorso migratorio, descrive la trama delle molteplici (ir)responsabilità e latitanze che le rendono possibili. Riflettendo sul tema dell’integrazione, si mostra ancora una volta precursore rispetto agli ambienti accademici del tempo, egemonizzati dal concetto di assimilazione: preoccupato dei costi – anche sul piano della pratica religiosa – di una brusca cesura dalle proprie radici, Scalabrini guarda con favore al bilinguismo, alla conservazione dei valori della cultura d’origine e della propria identità distintiva; valuta positivamente la reciproca contaminazione tra culture diverse; individua nella religiosità non un ostacolo ma un fattore di sostegno al percorso di inclusione nella nuova società.
Significativamente, sostiene – anche attraverso un’azione di advocacy a livello nazionale e non solo – la necessità di creare un sistema di governo delle migrazioni (oggi diremmo di governance) basato sulla collaborazione tra Paesi, che comprenda un’azione di orientamento e preparazione (o eventualmente dissuasione) della migrazione e che riconosca e valorizzi il ruolo della società civile, in primis della Chiesa e della sua capacità di tessere ponti tra le diocesi d’origine e quelle di destinazione. Un sistema orientato al bene comune, che miri a promuovere insieme la libertà di migrare e il diritto a non emigrare forzatamente, e che integri il governo della mobilità umana con le politiche per lo sviluppo, ovvero che gestisca le migrazioni «per il bene di chi espatria, per le nazioni ed economie di partenza, come per le economie dei Paesi di inserimento»: ecco in nuce l’attuale filosofia del «co-sviluppo».
E, ancora, nel descrivere gli scopi della sua congregazione religiosa Scalabrini tiene insieme il benessere morale, civile ed economico: ciò che oggi definiremmo un approccio olistico alla questione migratoria, coerente con l’idea di sviluppo umano integrale ma assai distante dai caratteri di «modelli d’integrazione » esclusivamente basati sul vantaggio economico nel disporre di una manodopera duttile e a buon mercato. Accanto a quelli spirituali – che restano in ogni caso centrali –, nella proposta scalabriniana la Chiesa è dunque chiamata a rispondere anche ai bisogni sociali, sanitari, di assistenza legale, di promozione umana in senso lato. Di qui la necessità di investire nello studio dei fenomeni e nella formazione specifica dei sacerdoti e degli operatori pastorali, per metterli in grado di svolgere un’azione a 360 gradi: dal contrasto della tratta e dello sfruttamento all’assistenza umanitaria nelle situazioni di crisi, dalla sensibilizzazione dell’opinione pubblica alla cooperazione con le autorità governative per favorire l’adozione di leggi e procedure in grado di dare risposte ai problemi dei migranti e, con essi, ai problemi della società di cui i primi sono sempre un riflesso.
Scalabrini parlava della migrazione come di una provocazione di fronte alla quale i cattolici non potevano rimanere spettatori. Una provocazione ma, al tempo stesso, una sorgente di «beni incalcolabili » che, nella strada da lui tracciata, si rivelerà nel tempo, per la Chiesa, una formidabile occasione di auto-riflessività e di (ri)scoperta del significato più autentico della cattolicità.