Signor direttore,
paragonare gli ebrei della Shoah ai migranti nostrani è una forma subdola di negazionismo. Io preferisco chi chiaramente dice che crede che la Shoah sia una montatura ebrea-americana, di chi cerca di minimizzarla, paragonando ebrei vittime dell’Olocausto ai migranti odierni. I migranti si consegnano volontariamente ai trafficanti libici, dove si recano per effettuare la traversata; e, se pagano il viaggio, i trafficanti non hanno nessun interesse a maltrattarli, anche perché altrimenti quei poveracci sceglierebbero altri porti e altri gruppi meno malfamati. I pochi intercettati dalle vedette libiche non vengono riconsegnati ai trafficanti, ma collocati in campi gestiti dal governo situati fra Tripoli e Misurata; che chiaramente non sono alberghi a 3-4 stelle, ma neanche centri di tortura.
Gentile direttore,
Gian Paolo Franzoni
Gentile direttore,
se il diritto marittimo, come ci ha ricordato il magistrato Rosario Russo (“Avvenire”, giovedì 2 febbraio) prevede l’obbligo di far sbarcare il naufrago sulla costa sicura più vicina, mi pare che nella questione che ci riguarda debbano essere precisati alcuni elementi. In primis la definizione di naufraghi. Mi pare accertato che nessuno degli immigrati a bordo di navi ong sia definibile come “naufrago”: alcuni li definiscono “naufraghi a pagamento” dato che è accertato che il passaggio viene da loro pagato con migliaia di dollari. In secondo luogo, non sempre la costa sicura più vicina è quella italiana, ma è quella da sempre scelta dalle navi ong.
Santo Bressani Doldi
Ho scelto, oggi, queste due lettere, diciamo, “dissonanti” rispetto alle tante riflessioni solidali e dolenti su ciò che continua ad accadere nel nostro mare di casa, trasformato da leggi sbagliate, da scelte politiche miopi e cattive e da trafficanti cinici in pericolosa via di migrazione irregolare per persone forzate ad attraversarlo in cerca di pace e pane, libertà e tolleranza, lavoro e sicurezza. Con i miei colleghi e le mie colleghe, con collaboratori e collaboratrici che hanno riconosciuta autorità in materia di mobilità umana e di buon diritto, abbiamo scritto, documentato e svelato così tanto su tutto questo, che ogni parola in più potrebbe sembrare inutile. Eppure, così non è.
Mi colpisce che un lettore come Santo Bressani, medico e collaboratore della San Vincenzo, persona colta e sensibile, non colga la tragica contraddizione insita nella (non solo) sua negazione della condizione di «naufraghi» a coloro – e solo a loro – che vengono tratti in salvo, su barche in avaria o che stanno affondando, da «navi ong» dopo la traversata a rischio del Canale di Sicilia per cui sono stati costretti a sborsare cifre (non solo) per loro esorbitanti pur di lasciare la costa nordafricana e sfuggire, soprattutto in Libia, a violenze e vessazioni che pesano anche sulle nostre coscienze. Questi uomini, queste donne, questi bambini non sarebbero naufraghi, ma tutt’al più «naufraghi a pagamento». Faccio notare che qualunque naufrago che non sia marinaio o pescatore o armatore (cioè un lavoratore o un imprenditore del mare) dovrebbe essere definito così sprezzantemente e sospettosamente «naufrago a pagamento». E, invece, si usa questa immagine solo e soltanto i poveri che vengono dal Sud del mondo.
Anch’io e il lettore lo saremmo se facessimo naufragio traversando il mare da nord a sud con un regolare traghetto, con la differenza che noi possiamo prendere una nave appunto regolare e non ci dobbiamo svenare per acquistare il passaggio. Faccio anche notare al dottor Bressani che l’85-90% dei naufraghi è raccolto da navi militari italiane e il 10-15% da navi umanitarie. Questi ultimi fanno parte dei naufraghi che non raccoglierebbe o non raccoglie nessuno, cioè sono persone che vengono salvate da morte e scampano a quello che il Papa ha definito «il più grande e freddo cimitero d’Europa». Altri e altre non ce la fanno. E storie strappacuore come quelle che siamo costretti a scrivere anche in queste prime settimane del 2023 ci dicono in modo terribile che purtroppo, nel nostro pezzo di mondo, continuiamo a catalogare uomini e donne di “serie B”, la cui vita vale meno di uno slogan. A questo bisogna pensare. Così come bisogna pensare a creare un sistema per cui se il porto sicuro più vicino è, come è, italiano (oppure – è bene leggere tutti i dati che via via pubblichiamo – è maltese, o spagnolo, o greco, o cipriota) la rete dell’accoglienza dei richiedenti asilo sia quella dell’intera Unione. Senza eccezioni. E tenendo conto di ciò che altri (Germania e Francia più di tutti, i Paesi nazional-sovranisti meno di tutti) già fanno. I nostri fratelli e le nostre sorelle ucraine sono “naufraghi di terra” in fuga da una guerra che riconosciamo come tale e non devono pagare prezzi ulteriori dopo quello tremendo che già pagano per attraversare i confini della Ue senza doversi affidare a banditi. E una volta entrati nella Ue possono scegliere in sicurezza dove stabilirsi. Vorrei, come tanti, che questo fosse possibile a ogni persona nelle loro stesse condizioni da qualunque parte del mondo arrivi a bussare alla porta della casa comune europea.
Al signor Franzoni, autore della prima delle due lettere che precedono queste righe, dico che l’unico “negazionismo” che vedo è il suo. Ed è terribile. Le migrazioni forzate e consegnate a traffici criminali e a campi di detenzione libici che rapporti dell’Onu hanno definito «lager» non sono un’opinione, sono fatti. E in esse di “volontario” c’è solo la violazione da parte di diversi governi e parlamenti di codici morali e giuridici a tutela della vita umana che ci siamo illusi fossero indiscutibili. Una tragedia grande, ma – viene chiesto – comparabile all’immenso e sistematico crimine della Shoah? Penso che non siamo a tanto. Non ancora, anche se ogni stilla di ingiustizia e di dolore è di troppo. Ed è meglio aver chiaro che il virus che avvelena sguardo, pensieri e azioni sulle sofferenze di persone povere dalla pelle più scura della nostra che si fanno “migranti” è dello stesso ceppo di quello che produsse lo sterminio degli ebrei, degli zingari e degli “imperfetti”. Tutti qualificati Untermenschen (sottouomini), come nei giorni scorsi su queste pagine ha ricordato ad altro, ma non lontano, proposito Marina Corradi ( https://tinyurl.com/sottouomo ). Non ci sono sottouomini. E, in questo tempo sfregiato da smemoratezze, pseudo-verità e “cattivismo”, dirlo non basta: bisogna dimostrarlo.
Al signor Franzoni, autore della prima delle due lettere che precedono queste righe, dico che l’unico “negazionismo” che vedo è il suo. Ed è terribile. Le migrazioni forzate e consegnate a traffici criminali e a campi di detenzione libici che rapporti dell’Onu hanno definito «lager» non sono un’opinione, sono fatti. E in esse di “volontario” c’è solo la violazione da parte di diversi governi e parlamenti di codici morali e giuridici a tutela della vita umana che ci siamo illusi fossero indiscutibili. Una tragedia grande, ma – viene chiesto – comparabile all’immenso e sistematico crimine della Shoah? Penso che non siamo a tanto. Non ancora, anche se ogni stilla di ingiustizia e di dolore è di troppo. Ed è meglio aver chiaro che il virus che avvelena sguardo, pensieri e azioni sulle sofferenze di persone povere dalla pelle più scura della nostra che si fanno “migranti” è dello stesso ceppo di quello che produsse lo sterminio degli ebrei, degli zingari e degli “imperfetti”. Tutti qualificati Untermenschen (sottouomini), come nei giorni scorsi su queste pagine ha ricordato ad altro, ma non lontano, proposito Marina Corradi ( https://tinyurl.com/sottouomo ). Non ci sono sottouomini. E, in questo tempo sfregiato da smemoratezze, pseudo-verità e “cattivismo”, dirlo non basta: bisogna dimostrarlo.