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Caro direttore,
le difficoltà delle famiglie si trasferiscono inevitabilmente sui bambini. All’età di 4 anni, come una vasta letteratura scientifica dimostra e come evidenziato anche dalla recente indagine svolta in Italia da Save the Children, i bambini sono già diversi, o meglio diseguali, nelle loro competenze, sia quelle cognitive che quelle socio-relazionali, e nel rischio di sviluppare ritardi e disordini di sviluppo.
Alla radice di queste diseguaglianze certamente vi sono, nei casi più gravi, anche alterazioni neurobiologiche, ma soprattutto carenze significative in quello che è stato definito come 'ambiente di apprendimento familiare', quindi nelle relazioni, negli atti, negli oggetti, negli spazi che costituiscono la principale fonte di apprendimento per il bambino nei suoi primissimi anni di vita. Se questo ambiente è inadeguato, povero di attenzioni, risposte, opportunità, parole, gioco, storie, lo sviluppo del bambino ne risente, su più dimensioni, con conseguenze sul suo successivo percorso scolastico, benessere mentale ed esiti sociali.
Se questo è vero – come dimostrano oltre due decadi di ricerche in campi diversi, dalle neuroscienze alla psicologia dello sviluppo, e di studi che hanno indagato gli itinerari di vita dalla nascita all’età adulta – occorre che l’azione legislativa e quella amministrativa non si limitino ai pur necessari interventi di sostegno al reddito, di messa a disposizione di servizi educativi e di ampliamento dei congedi parentali – che restano le architravi delle politiche per le famiglie – ma comprendano servizi che, lavorando direttamente con le famiglie – con le madri, con i padri e con gli altri caregiver – ne sostengano le conoscenze (pochi genitori ad esempio vengono informati dei bisogni evolutivi del bambino e di come rispondervi) e soprattutto le pratiche, il fare quotidiano, per renderlo più nutriente per le menti in formazione.
Tenendo conto che la stessa efficacia del nido sullo sviluppo è mediata in misura significativa da quello che accade nelle famiglie, e quindi dalle attività facilitanti lo sviluppo che vi vengono condotte: in altre parole, un nido di qualità produce molti più benefici se accompagnato da un tempo familiare di qualità, caratterizzato cioè da relazioni e interazioni ricche. La stessa indagine condotta da Save the Children dimostra che le attività, quali ad esempio la lettura, che vengono svolte nell’ambito della famiglia, hanno un peso sulle diseguaglianze che si sviluppano nei primi anni. Non mancano esempi all’estero e in Italia di interventi che questo fanno e che si sono dimostrati in grado di produrre risultati.
Questi servizi vanno portati a sistema, vanno concepiti e offerti come opportunità per tutti e non solo per situazioni di particolare vulnerabilità. Infatti, accanto alle problematiche che continuano a colpire non poche famiglie con bambini – quali povertà materiale ed educativa, violenza domestica, esclusione sociale, dipendenze – ne stanno comparendo altre, come testimoniano tutti gli operatori impegnati nei servizi sanitari ed educativi per l’infanzia: disorientamento nelle scelte educative, isolamento sociale, incertezza sul futuro, sfiducia nelle istituzioni e nei servizi.
Diversamente dalle prime, che colpiscono una parte certo non trascurabile ma minoritaria di famiglie con bambini, le seconde riguardano le nuove madri e i nuovi padri in misura maggioritaria e trasversale alle classi sociali. Si tratta dunque di concepire, anche per evitare servizi che si connotino come servizi per persone in difficoltà, interventi semplici e di natura universale, sia pure poi modulabile in base ai bisogni. È una prospettiva che ormai è necessario assumere. Sia il settore pubblico sia quello privato, a livello nazionale come delle singole comunità, devono impegnarsi e allearsi per essere all’altezza di questo compito: sui primi anni, come ha scritto Lya Luft, «si cammina tutta la vita».