Caro direttore,
sta facendo molto discutere il disegno di legge in tema di giustizia appena approvato dal Governo. In estrema sintesi, le principali novità consistono nell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, nell’introduzione di limiti alla pubblicazione delle intercettazioni, nella esclusione (per alcuni reati) dell’appello del Pubblico Ministero su sentenze di assoluzione e nel rafforzamento dei diritti della difesa nella fase cautelare. Sebbene si sia in presenza di un intervento più snello di quello che ci si sarebbe potuti attendere alla luce delle linee programmatiche illustrate dal ministro lo scorso dicembre – nelle quali si era parlato anche di separazione delle carriere e di modifiche ai presupposti di ammissibilità delle intercettazioni – le polemiche non sono mancate e si sono concentrate sulla abrogazione dell’abuso d’ufficio e sulla stretta alla pubblicazione delle intercettazioni.
Quanto al primo aspetto, la storia dell’abuso d’ufficio è quella di un reato in cerca d’autore. Un’ipotesi più studiata dalla dottrina di quanto non sia stata applicata dai giudici, se si pensa che nel 2021, su oltre 5.400 procedimenti, le archiviazioni sono state oltre 4.600 e le condanne solo 18. Al di là dell’impietoso dato numerico, c’è da dire che la norma è stata però recentemente modificata – restringendo l’area del penalmente rilevante – e che le iscrizioni risultano in calo già da anni (e potrebbero ulteriormente calare alla luce delle recenti modifiche all’iscrizione delle notizie di reato). La conseguenza pratica della abrogazione sarà, da un lato, la probabile contestazione di reati diversi (anche più gravi) in grado di prendere lo spazio prima occupato dall’abuso d’ufficio e, dall’altro, la revoca delle condanne definitive. Se a ciò si aggiunge che raramente tale reato viene contestato da solo, sarebbe stato forse più opportuno, in luogo di una sua abrogazione “secca”, propendere per una sua modifica.
Quanto alle intercettazioni, nel ddl si prevede il divieto di pubblicazione delle stesse se non riprodotte dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzate nel corso del dibattimento, accompagnato dalle ulteriori previsioni di non rilasciare copia di intercettazioni non pubblicabili (se la richiesta non proviene dalle parti o dai loro difensori) e di non indicare nei provvedimenti cautelari i dati personali dei soggetti terzi, salvo che ciò sia indispensabile. Queste le modifiche che hanno fatto gridare allo scandalo gran parte della stampa, che non ha tardato a parlare di “bavaglio”.
Chiunque frequenti le aule di giustizia sa bene come, nonostante vi siano già norme che vietano la pubblicazione di determinati atti, le stesse vengano sistematicamente violate anche a causa di un impianto sanzionatorio che non ha alcuna efficacia deterrente. Emblematico è il fatto – che dovrebbe bastare, da solo, a ridimensionare le critiche di questi giorni – che il medesimo trattamento (legge bavaglio, vendetta, lesione al diritto di informazione ecc…) sia stato all’epoca riservato sia alla legge Orlando, sia al più recente intervento dell’ex ministro Cartabia sulla direttiva in tema di presunzione di innocenza.
Al di là di qualche conferenza stampa in meno e di qualche inchiesta cui non vengono più dati titoli roboanti e suggestivi, si può davvero sostenere che la stampa sia stata imbavagliata e che si sia assistito a una lesione del diritto dei cittadini a essere informati? Tra i tanti, due esempi – molto diversi tra loro – rendono bene l’idea: nell’inchiesta Prisma (caso Juventus) abbiamo assistito alla pubblicazione di qualunque tipo di intercettazione, anche quelle prive di rilevanza penale e con soggetti non indagati; nella recentissima vicenda dell’omicidio di Giulia Tramontano – nella quale si è tenuta una conferenza stampa e non vi era un tema di intercettazioni – i giornali hanno pubblicato chat e atti di indagine e hanno raccontato, minuto per minuto, ciò che veniva detto dall’indagato in sede di interrogatorio (il tutto accompagnato da dettagli inutili e macabri che poco hanno a che vedere con il diritto all’informazione). Sacrosante le critiche nel merito – e, infatti, non pare condivisibile la chiusura del ministro sulle critiche della Anm – ma sul rischio bavaglio si rischia l’effetto “al lupo, al lupo”. È prevedibile che poco o nulla cambierà dopo quest’ulteriore intervento. Per averne conferma basterà attendere la prossima inchiesta.
Direttore della rivista «Giurisprudenza Penale»