La gratitudine spirituale è un bene capitale delle persone e delle comunità. All’inizio ci viene trasmessa per osmosi dai genitori e dai nonni, e diventa quella postura esistenziale che porta ad attribuire le componenti più importanti dei nostri doni e talenti alla generosità della vita, alla provvidenza, a Dio. È un invito delicato e forte a tenere aperto nel tetto della casa dell’anima un foro verso il cielo per poterlo indicare con la mano quando qualcuno ci loda per le nostre buone azioni - “non io, ma Dio...”. È l’atteggiamento opposto a quello proposto oggi dalla meritocrazia, che ci spinge invece a leggere i nostri successi (e gli insuccessi degli altri) come frutto esclusivo dei nostri meriti (e dei loro demeriti) - l’ingratitudine di massa è la prima nota delle società meritocratiche.
«Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio, e disse: “Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso... Io dicevo: sono scacciato lontano dai tuoi occhi... Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio.. Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore”» (Giona 2-10). Fatta l’esperienza del grembo caldo di Dio che lo ha accolto e salvato, lì Giona prega. Il testo ci dona una preghiera sotto forma di salmo, un genere letterario molto importante e amato nella Bibbia (e anche al di fuori di essa). È composta sulla base di citazioni di molti Salmi (16, 69, 88, 89,120), e vi ritroviamo la stessa bellezza e forza spirituale. L’autore immagina Giona orante dopo che è stato già salvato, mentre ricorda e loda Dio per la salvezza ottenuta.
Dentro il grande pesce Giona rimpara a pregare - se era un profeta sapeva già pregare. Allora in questo salmo possiamo trovare una grammatica dell’arte di ricominciare a pregare dopo una grande prova che ci aveva tolto la fede o che ci aveva tolto la preghiera, o entrambe - sulla terra ci sono fedi senza preghiere e preghiere senza fede, entrambe esperienze quasi sempre pienamente umane, non meno spirituali e vere di molte preghiere di credenti.
Giona inizia a pregare perché riconosce Dio come la causa della sua salvezza dalle acque. Lo riconosce come liberatore dai flutti marini e dall’inferno morale dove era caduto partendo in direzione ostinata e contraria a quella buona. Riconosce Dio come liberatore, lo chiama quindi con il suo primo nome biblico, perché il Dio della Bibbia è molte cose, ma prima e sopra tutto è un liberatore da ogni forma di schiavitù, un donatore di libertà. Giona in quel grembo fa dunque una esperienza di libertà donata. Nel repertorio delle libertà umane ce ne sono alcune che sono frutto di auto-liberazione, esito di un cammino individuale faticoso e arduo che si conclude con l’uscita dal baratro.
Ma ce ne sono altre, e sono le più numerose, dove la libertà è liberazione, quando ad un certo punto, quasi sempre quando avevamo perso le ultime speranze, arriva una mano, visibile o invisibile, che dall’altra parte delle acque abbassa per noi «il ponte levatoio» (J. Taubes), per annunciarci che quella schiavitù è terminata. In quel ventre buono e femminile Giona fa l’esperienza di questo secondo tipo di libertà-liberazione, e quindi ricomincia a pregare - forse preghiamo poco perché non riusciamo più a vedere una mano dietro il sollevamento dei ponti levatoi delle nostre prigioni. C’è Dio all’inizio della preghiera e della lode, lo sappiamo. Ma se noi non riusciamo a riconoscere la presenza e l’azione di Dio in quell’atto di salvezza, non scatta alcuna riconoscenza-gratitudine. Per ritrovare (o trovare) la fede e quindi ricominciare a pregare non basta il fatto oggettivo della salvezza: c’è bisogno dell’esperienza soggettiva che ci fa associare quel fatto ad una presenza spirituale.
La fede è un bene relazionale: vedere una presenza, riconoscerla, e infine chiamarla per nome: “Rabbunì”. Anche per questa ragione Dio ha bisogno di noi e della nostra libertà, perché senza il nostro riconoscimento il logos l non riesce a farsi nostra carne. Mi piace immaginare la presenza di Dio nel mondo come qualcuno che attende mite e in silenzio, spera e prega che prima o poi riusciamo a individuare la sua mano dietro le nostre porte, e anche se non ci riusciamo, rimane lì, in un altro stabat: «Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Mentre (e siamo al secondo movimento della preghiera) Giona riconosce la mano di Dio-YHWH in quella liberazione straordinaria, dal riconoscimento nasce la riconoscenza. Giona diventa grato. Il riconoscimento è il padre, la riconoscenza-gratitudine è la figlia. La gratitudine è una parola prima dell’esistenza, è impossibile crescere e vivere senza praticarla almeno un po’. Ma la gratitudine di Giona è diversa: quel riconoscimento di salvezza gli genera la gratitudine spirituale verso Dio. Ci sono molte persone grate, capaci di riconoscenza, senza vivere né conoscere la gratitudine verso Dio, e questa mancanza non riduce il valore etico della loro gratitudine umana. Affinché la gratitudine spirituale che all’inizio ci viene donata possa durare nel tempo della vita adulta, c’è bisogno che diventi esperienza di salvezza durante una “grande tempesta”, quando al termine di una lotta notturna l’angelo ci benedice e ci cambia nome - nel combattimento di Giona ci sono molti suoi amici biblici, e tra questi Giacobbe-Israele. In francese “riconoscimento” e “riconoscenza” sono la stessa parola: reconnaissance.
Importante poi è il versetto al centro del salmo di Giona: Mi hai gettato nell’abisso. Perché Giona attribuisce a Dio il suo precipitare nell’abisso, perché lo rende responsabile anche della sua sventura? Il testo finora ci ha detto esattamente il contrario: è Giona che aveva disubbidito a Dio e invece di recarsi a Ninive si era imbarcato verso Tarsis, dove durante la tempesta venne gettato in mare come “capro espiatorio” sacrificato per salvare i marinai. Da dove gli nasce questo brano di preghiera? Qualcuno ha voluto vederci un tono ironico - non condivido la lettura del libro di Giobbe come testo ironico, per me è molto di più. Occorre provare a cercare altrove una possibile spiegazione.
Se leggiamo Giona dalla prospettiva sapienziale dei Salmi e di Giobbe, capiamo che dentro questo orizzonte spirituale nulla di quanto ci succede è fuori dalla volontà di Dio. Associare YWHW anche alle disgrazie nostre e quelle degli altri, anche quelle assurde, è stato il “costo” che l’umanesimo biblico ha dovuto sostenere per non dissociare Dio dalla storia umana e dalle nostre storie quotidiane, facendone un dio innocuo e banale. Perché, per la Bibbia, se Dio non è dietro-dentro a tutto non è dietro-dentro a nulla - Giobbe riesce a salvare la sua fede accusando Dio per la sua sventura incolpevole. Allora se spingiamo fino in fondo questa tesi radicale e affascinante, dobbiamo dire che Dio era anche dietro il no di Giona, senza negare che Giona fosse veramente libero nel disubbidire. Giona ha scelto liberamente di non obbedire al comando di YHWH: non è stato Dio a dirgli di andare a Tarsis e di imbarcarsi su quella nave, lo ha deciso lui. Ma Giona-profeta sente, una volta salvato, che c’era una volontà più profonda della sua libertà che aveva voluto quella disobbedienza. Giona fa dunque una esperienza simile, sebbene simmetrica, a quella di Giuseppe con i suoi fratelli. Dopo che loro lo avevano venduto ai mercanti ismaeliti, Giuseppe si ritrova vivo e potente, salva i suoi fratelli in Egitto, li riconosce, li perdona e alla fine dice loro: «Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui» (Gn 45,5). Erano stati i suoi fratelli a venderlo; ma Giuseppe sente che ad un livello più profondo quella “cacciata da casa” era dentro un processo d’amore più grande e che gli si svela in pienezza solo alla fine.
Non è raro che nella vita di chi segue onestamente una voce si ripeta questa esperienza di Giona (e di Giuseppe). Si riceve una chiamata, si risponde, si parte, si comincia un cammino. Un giorno, ognuno con una ragione diversa (e simile), sente che deve cambiare direzione. Parte in senso contrario, si ritrova sulla nave sbagliata. Si scatena una tempesta, si sente la morte vicina, ma nel fondo dell’abisso e dell’inferno una mano ci raccoglie e ci salva. Tra le tante cose che capiamo in questa discesa negli inferi e ritorno, c’è anche la consapevolezza che in quel partire libero c’era qualcuno o qualcosa che ci aveva cacciati - “Sono scacciato lontano dai tuoi occhi”. Capiamo, realmente, che non eravamo partiti, fuggiti, scappati: eravamo stati cacciati via. Un primo livello di analisi ci porta subito ad individuare i colpevoli di quella cacciata in persone ed eventi precisi, e questa fase è dolorosa e difficile, generatrice di molta rabbia e veleno.
Ma se siamo capaci di spingerci fino in fondo, possiamo raggiungere un altro piano di verità. In un altro giorno, magari in un grembo buono, ci accorgiamo che, senza saperlo né volerlo, quelle persone che ci avevano cacciato mentre noi pensavamo di essere fuggiti liberamente (ed era anche vero) stavano recitando una parte di un copione che qualcuno aveva scritto per loro. Per trovare questo secondo piano del mondo non c’è un bisogno necessario della fede, di credere che quel qualcuno sia Dio - è una ipotesi utile ma non assolutamente necessaria (se così fosse, troppe persone sarebbero condannate ad una triste rabbia eterna).
Si esce da lunghe e dolorose prove dell’esistenza se e quando un giorno, un benedetto luminoso giorno, riusciamo a riconoscere una mano buona dentro le vicende che ci hanno complicato e qualche volta rovinato la vita. Una mano che sentiamo vera, oltre le auto-consolazioni, vera come e più della nostra scelta di partire. E quella verità, finalmente, ci fa liberi di un’altra libertà più grande. È tutta gratuità. Inizia la primavera più bella, qualche volta si rimpara anche a pregare. «E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia» (2,11).
l.bruni@lumsa.it