Secondo la nuova e più moderna teoria dell’autodeterminazione femminile, l’unico atto di libertà consentito a una donna in difficoltà per una gravidanza non voluta è l’aborto. Se invece accetta un piccolo aiuto economico messo a disposizione da un ente pubblico, cambia idea e arriva al parto, allora no, non è libera.
È ben strabico il ragionamento di coloro che ieri hanno violentemente attaccato la mozione del Consiglio comunale di Iseo e di altri sette paesi della Provincia bresciana che impegna la Giunta a stanziare un fondo per sostenere le donne intenzionate, per mancanza di mezzi materiali o gravi problemi psicologici o familiari, a interrompere la gravidanza, offrendo loro un’alternativa. Di più: il ragionamento non è solo strabico, è anche pericolosamente fuorilegge. Sì, fuorilegge. Perché la stessa legge 194/78, fin dal suo titolo ('Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza') stabilisce che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio» e prevede che una struttura pubblica, come il consultorio familiare, contribuisca «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza».
Eppure un blasonato quotidiano nazionale si è spinto a titolare «Donne pagate per non abortire. La crociata dei Comuni 'pro life'», mentre la senatrice Monica Cirinnà, responsabile Diritti (ma quali? E di chi?) del Pd, alle agenzie di stampa ha affidato il seguente messaggio: «È l’ennesimo attacco alla libertà di scelta della donne, tanto più grave perché 'mascherato' da sussidio. (…) La scelta di diventare madre o no non si compra, ma deve restare affidata alla responsabilità e alla libertà della donna di autodeterminarsi senza costrizioni». Dunque, prevedere un aiuto (mai imposto, sempre su richiesta delle interessate) sarebbe creare una 'costrizione' o un 'condizionamento' nei confronti della 'libera scelta' della donna. Invece la situazione di estrema povertà che potrebbe indurre una madre a rinunciare a suo figlio no, non lo sarebbe. Sarebbe una condizione di libertà.
Un aiuto alla «maternità difficile» (così la definisce la Legge 194) può salvare una vita. Non è una 'paga' né un 'premio', né la sua entità (nel caso bresciano 160 euro al mese per 18 mesi), potrebbe fare veramente la differenza, contrariamente a quanto pensano i pasdaran dell’autodeterminazione femminile a senso unico. È piuttosto il suo significato simbolico di incoraggiamento, di 'presa in carico'.
È come dire a una donna: non sei sola con i tuoi problemi, la tua città ti accompagna, tu e tuo figlio per noi contate. Non ci sfugge che 160 euro al mese non sono sufficienti per crescere un bambino. Serve un lavoro, servono gli asili, serve una famiglia vicina, una rete di supporto, una condivisione dei compiti tra i partner. Ma non cadiamo nella trappola del 'benaltrismo'. Il sostegno alla 'maternità difficile' auspicato dai Comuni del Bresciano è semplicemente un segno importante di preferenza per la vita. Non sostituisce nessun provvedimento di contrasto alla miseria o di aiuto alla famiglia con figli, semmai affianca. E non è un attacco alla legge 194, come ha spiegato bene il sindaco di Iseo, Marco Ghitti. Anzi, aggiungiamo noi, è un suo rafforzamento. Perché legge, civiltà e umanità non prevedono che si rinunci a un figlio per povertà. Questo, almeno, non dovrebbe essere considerato ideologico, un’altra accusa gettata ieri in pieno volto agli amministratori degli otto Comuni del Bresciano.
Si potrebbe chiedere alle volontarie e ai volontari di Progetto Gemma – il programma di sostegno pre e post natale del Movimento per la Vita – da 5 lustri a fianco delle gravidanze indesiderate più 'difficili' quando davvero una donna incinta non è libera di scegliere e di 'autodeterminarsi'. Risponderebbero che è 'condizionata' quando è poverissima, quando subisce pressioni per sbarazzarsi del figlio, quando non ha nessuno accanto, quando è fragile psicologicamente.
Allora sì, si può sentire costretta a scegliere l’aborto. Ma se qualcuno le tende la mano, allora riscopre la vera libertà, quella di dire sì alla vita. Come Giovanna, una 17enne che intervistammo nel 2019, in occasione dei 25 anni di Progetto Gemma: incinta di un compagno di classe, solo la professoressa di Scienze si accorse della sua disperazione e le parlò della possibilità di un aiuto economico. Giovanna aveva in tasca il certificato per l’aborto. Lo stracciò; adesso suo figlio ha 3 anni ed è la sua gioia. «Quei soldi mi hanno aiutata, certo. Ma più di tutto, sapere che qualcuno stava raccogliendo denaro per me, senza nemmeno conoscermi, mi ha fatto sentire più forte. Solo allora ho pensato che potevo farcela».