Non nascondiamocelo. Con l’aria che tirava, l’uscita di prigione dei tre indagati della strage del Mottarone è stata una sorpresa: sconcertante, per molti; e, per parecchi, persino scandalosa. In realtà le decisioni del giudice per le indagini preliminari di Verbania suonano, almeno nell’impostazione di base, in stretta e rigorosa aderenza al codice di procedura penale, chiarissimo nel fissare le condizioni perché in attesa di giudizio possa infliggersi a una persona la custodia carceraria o un’altra misura cautelare. L’una e le altre non hanno da costituire anticipazioni di pena; devono però poggiare su «gravi indizi di colpevolezza» e su almeno una di quelle che la legge chiama «esigenze cautelari» – pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga, pericolo di reiterazione o di sviluppo dell’attività criminosa – dalla cui gradazione dipende anche la scelta della specifica "risposta" limitativa di libertà quando la condizione sia soddisfatta.
Troppo fragili, ha detto il giudice delle indagini preliminari, gli indizi addotti contro due dei tre indagati "fermati" pochi giorni prima su ordine del pubblico ministero; non quelli contro il terzo (autore egli stesso di una drammatica assunzione di responsabilità) ma pur sempre ingiustificata – per il giudice – anche la sua detenzione, risultando sufficienti, a fronteggiare le «esigenze cautelari», gli arresti domiciliari. Queste le valutazioni formulate rebus sic stantibus. Giuste? Sbagliate? Difficile dirlo dall’esterno: era quello, comunque, l’organo competente a pronunciarsi con effetto immediato, benché la sua ordinanza possa essere impugnata. E in prospettiva? Quasi tutto resta da chiarire, anche sul coinvolgimento di altri potenziali indagati, adombrato dalla stessa ordinanza del giudice.
Gioverebbe comunque che adesso le indagini potessero svolgersi senza la sarabanda mediatica della scorsa settimana, della quale, a dire il vero, la colpa non è tutta del mondo della comunicazione. Cose del genere non fanno bene, neppure come contributo a una giustizia più tempestiva di quella la cui lunghezza esaspera l’opinione pubblica spingendola a chiedere gogne e carcerazioni preventive senza troppi scrupoli. Meno ancora lo farebbe il degenerare in plateale competizione tra una procura e un gip quella che è di per sé la fisiologica ripartizione di ruoli tra accusa e giudizio (anche se da una parte e dall’altra non sarebbe male se negli stessi atti formali di loco spettanza si evitassero le parole "forti", tanto più se coinvolgenti giudizi sulle responsabilità di questo o di quell’indagato, quando a formare oggetto di valutazione basta la descrizione dei suoi comportamenti).
Era ed è comprensibile l’indignazione che, accompagnandosi a una sincera commozione collettiva per le vite così assurdamente spezzate e per il dramma del bimbo sopravvissuto, ha caratterizzato sin da subito le reazioni della gente comune a una tragedia come questa, di cui si è immediatamente capito che non era addebitabile a mera fatalità. È però proprio in questi casi che si misura la capacità di tutti gli 'addetti ai lavori' (magi-strati, avvocati, giornalisti …), di mantenere il giusto equilibrio e l’armonizzazione tra esigenze facenti capo a valori, ciascuno, di primario rilievo: trasparenza della giustizia, ma anche rispetto della dignità delle persone e dei princìpi fondamentali del «giusto processo», a cominciare dal diritto di difesa e dalla presunzione d’innocenza fino a che non sia legalmente acquisita una prova dimostrativa, oltre ogni ragionevole dubbio, del contrario. Certo, dev’essere fuori discussione il diritto-dovere della stampa – 'cane da guardia' della democrazia e della giustizia in uno Stato di diritto – di essere informata e di informare su come si stanno conducendo le indagini penali: specialmente in casi delicati e sconvolgenti come questo. La cronaca giudiziaria svolge una funzione essenziale contro arbitri, carenze investigative, coperture di 'intoccabili'.
Nei processi penali di uno Stato di diritto la funzione delle indagini preliminari è però quella di ricercare e di raccogliere dati, non di esibirli laddove non sono già di per sé di pubblico dominio; né, tantomeno, tocca agli inquirenti esternare, o indurre a radicarsi, convinzioni o congetture su quanto sta via via emergendo (o sembra emergere). Se ciò accade, rientra nel lavoro del cronista il riferirne al suo pubblico; meno naturale è che interviste, conferenze-stampa e talk show assedino gli inquirenti con continue sollecitazioni a infrangere quella «discrezione» e quel «riserbo» che da tempo la Corte europea dei diritti umani ha loro raccomandato affinché sia garantito un esercizio corretto del pur sacrosanto dovere di assicurare trasparenza alla giustizia.