La condotta è illegale, dunque assolviamo. All’osso, è il ragionamento che stanno proponendo nelle loro paradossali sentenze i primi tribunali italiani a occuparsi di episodi di «maternità surrogata», con figli ottenuti in provetta da gameti di entrambi i genitori, di uno solo o anche di nessuno dei due, e la cui gravidanza viene condotta da una donna "comprata" per farlo. Tutto ciò all’estero, perché in Italia c’è una legge (la tanto vituperata eppure preziosa legge 40 sulla procreazione assistita, attesa oggi al verdetto della Corte Costituzionale sulla fecondazione eterologa) che saggiamente vieta la «surrogazione di maternità» prevedendo all’articolo 12, comma 6, la pena «da tre mesi a due anni» e una multa «da 600mila a un milione di euro».Dunque in Italia esiste una norma che dovrebbe scoraggiare «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza, o pubblicizza» la gravidanza a pagamento. E non applicarla, mandando sostanzialmente assolte le coppie che si comportano come se una regola non ci fosse, equivale a una legalizzazione de facto di una pratica disumana come il "noleggio" del ventre di una donna, senza l’incomodo di dover discutere una legge "permissiva" in Parlamento. Il giudice milanese che ieri ha allargato le braccia di fronte a una coppia tornata dall’India con un figlio nato da madre surrogata (si scrive così, ma si legge «donna ridotta a vendere la sua maternità») dice di aver fatto il possibile, ma che il diritto si troverebbe «con le spalle al muro» in casi, come questo, nei quali «la stessa definizione di maternità è ormai controversa» e dove si assiste a una «dissociazione tra il dato naturale della procreazione e la contrattualizzazione delle forme di procreazione». Una "resa del diritto" e una resa al "mercato", come se chi fa le leggi e chi le applica oggi dovessero limitarsi a prendere atto che «le possibilità offerte dalla scienza in questa materia – argomenta il giudice, che comunque ha avuto il coraggio di non archiviare il fatto portando la vicenda a sentenza – sono talmente vaste» da non permettere alternative nella «penosa scelta di tutelare il minore e di non privarlo dei suoi genitori "tecnologici"», categoria questa raggelante che nell’ormai vasto campionario delle definizioni su famiglia e generazione umana ancora ci mancava.Se a dettar legge è la tecnoscienza e ciò che essa rende possibile, che ci stanno a fare parlamenti e tribunali, giuristi e filosofi? Nessuno crediamo auspichi che la loro attività finisca per ridursi a legittimare "pratiche" e "contratti" vietati in Italia per il solo motivo che c’è chi è "costretto" a espatriare per poterli realizzare (altrimenti, per esempio, andrebbe legalizzata anche l’evasione fiscale), o a creare categorie come il «diritto alla genitorialità». Diritto teorizzato di recente da un altro giudice che ha assolto una coppia di ritorno dall’Ucraina con un figlio da utero in affitto.Ma c’è allora da chiedersi se ci sia ancora il coraggio di opporre un principio morale e d’umanità – fermo, indiscutibile, antecedente qualunque legge – al succedersi di fatti che sfidano norme e coscienze. L’accettazione di quel che accade come misura del diritto, e la sua progressiva normalizzazione a colpi di sentenze, è una scorciatoia ormai purtroppo ricorrente che il dilagare delle tecnoscienze non ci permette di prendere, a meno che non si desideri vedere presto o tardi realizzati gli scenari della più cupa e anti-umana fantascienza.Un argine ancora c’è, e va fatto rispettare: anzitutto non alterando la struttura di una legge come quella che mette regole chiare al selvaggio "mercato" delle provette con la quale 10 anni fa si è cercato di salvaguardare almeno i cardini della genitorialità: la certezza delle figure paterna e materna, embrioni creati in numero «strettamente necessario» allo scopo, una mano alle coppie che soffrono di sterilità e solo a queste per evitare i figli "su ordinazione", il veto alla selezione e all’uso sperimentale della vita umana, perché considerarla un mezzo e non un fine intangibile sarebbe l’anticamera di abusi senza fine su ciò che ci genera come persone. Decidere dove fissare la frontiera oltre la quale la vita diventa oggetto e la stessa genitorialità una finzione "tecnologica", senza dar spazio ad autoproclamati e capricciosi "diritti", è una faccenda che attiene alla nostra coscienza. E parla la lingua di una civiltà che non ci è lecito smantellare.