Con sempre maggior frequenza, nel dibattito pubblico, si assiste alla riconduzione dell'aborto nella categoria del diritto soggettivo. Ma alla luce della giurisprudenza costituzionale italiana e della legge n. 194 del 1978 è davvero corretto parlare di un diritto di abortire?
Il diritto soggettivo è una delle prime nozioni che gli studenti di giurisprudenza apprendono: si tratta di quella particolare forma giuridica mediante la quale l’ordinamento tutela un interesse della persona in maniera piena, e cioè garantendone senz’altro la realizzazione, ma lasciando al contempo tale realizzazione alla scelta insindacabile dello stesso soggetto portatore dell’interesse tutelato. Alcuni studiosi dell’800 parlavano in proposito di una «signoria del volere». Ciò posto, è corretto ricondurre a questo schema elementare anche l’interruzione della gravidanza per come è regolata nel nostro ordinamento? Per rispondere occorre partire, come detto, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Essa, fin dagli anni 70, ha riconosciuto il «fondamento costituzionale» del diritto alla vita del concepito. Inoltre, una sentenza degli anni 90, scritta da Giuliano Vassalli, ha dichiarato inammissibile una richiesta referendaria che mirava a eliminare i limiti posti all’aborto dalla legge 194, facendo valere l’argomento che «il diritto alla vita, inteso nella sua estensione più lata», è da iscrivere «tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”».
Si tratta di valori che «non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale» neppure attraverso l’apposita procedura di revisione costituzionale. Occorre, peraltro, riconoscere che lo stesso giudice delle leggi ha bilanciato il diritto alla vita del concepito con il diritto alla salute della donna.
In ogni caso, in nessuna pronuncia della Corte costituzionale si trova l’espressione diritto di aborto.
Anche la legge n. 194 del 1978 si apre con l’affermazione che «lo Stato… tutela la vita umana dal suo inizio». E prevede una serie di limiti al ricorso all’aborto.
La garanzia del diritto alla vita e la tutela della vita umana «dal suo inizio» escludono dunque che il rapporto della donna col figlio possa essere compreso semplicisticamente secondo una logica di tipo proprietario: una logica che consentirebbe l’integrale privatizzazione della scelta di interrompere la gravidanza.
Per sostenere l’esistenza di un diritto di aborto non si può neppure far valere che l’art. 1 del codice civile individua nella nascita – e non nel concepimento – il momento di acquisto della capacità giuridica. Una lettura sistematica di tale norma ci fa infatti comprendere come essa debba correttamente essere riferita ai soli diritti patrimoniali. A conferma di ciò va poi ricordato che la legge n. 40 del 2004 si apre con il riconoscimento del concepito tra i soggetti di diritto. La ricostruzione ora tracciata è, dunque, chiaramente incompatibile con l’idea che l’autodeterminazione della donna in ordine alla prosecuzione della gravidanza possa essere ricondotta alla categoria del diritto soggettivo.
Vale infine la pena di ricordare che, oltre alla decisione della Corte Suprema Usa del giugno scorso, che ha negato che l’aborto sia oggetto di un diritto fondamentale (in quel caso era stato in precedenza legato alle privacy), anche in altri ordinamenti democratici, come quello tedesco o quello austriaco, la situazione è analoga: l’aborto è consentito entro limiti precisi e non è pertanto oggetto di un diritto della donna.
Giuristi, Università Europea di Roma