Sarà certamente un Natale speciale, questo, per Asia Bibi. Finalmente festeggiato nel calore degli affetti, anziché in una fredda prigione. Il primo Natale di nuovo in libertà dopo nove anni di ingiusta carcerazione. E come sarebbe bello se Asia e la sua famiglia potessero celebrarlo lontano da tutte le minacce, al sicuro in un Paese accogliente. Non sarà così, non è facile, ci sono ancora troppe incertezze. Una cosa però sappiamo: non sarà questo il primo Natale da donna libera per Asia.
Può sembrare paradossale, infatti, ma quando penso alla parola libertà il primo nome che mi viene in mente è proprio quello di Asia Bibi. E non solo dal 31 ottobre scorso, da quando finalmente è stata scarcerata dopo la sentenza della Corte suprema pachistana che ne ha riconosciuto l’innocenza rispetto all’accusa di blasfemia. Il legame Asia Bibi-libertà è stato un pensiero ricorrente lungo i nove anni che la donna cattolica ha passato in carcere, i 3.141 giorni registrati dal contatore pubblicato sul nostro giornale, scanditi come una goccia che cade da un rubinetto rotto. Oltre tremila giorni trascorsi in una cella, senza poter avere contatti – se non sporadici – con il marito e le figlie, per la gran parte passati sotto sorveglianza e con la minaccia della pena di morte sulle spalle, come una croce da trascinare su un sentiero del Golgota quotidianamente percorso. Giorni di paura e frustrazione per le ingiuste accuse ricevute, certamente. Di infinita tristezza per una vita interrotta all’improvviso, il tempo di bere un po’ d’acqua tratta da un pozzo. Un’esistenza rubata per sottrazione d’affetti, di relazioni, di movimento. Lunghi giorni passati a pensare al marito fuori, anch’egli in pericolo; alle figlie soprattutto, costrette a crescere senza l’amore di una mad re. Quanto più facile sarebbe stato, in uno di quegli infiniti giorni, abiurare alla fede cattolica, anche solo formalmente, pronunciare la frase rituale su "Allah è grande..." affinchè le accuse venissero cancellate.
Tornare così a una vita "normale", alla propria famiglia. Chi l’avrebbe mai biasimata per questo cedimento e chi di noi potrebbe essere sicuro di resistere saldo nella fede così a lungo, con tale convinzione?
E invece, per Asia Bibi, quanto più intenso montava lo struggimento in quei tremila giorni, tanto più tenace si faceva la sua forza, quanto più si purificava il suo cuore da ogni risentimento, tanto più cresceva la sua libertà. Libertà interiore, quella di essere davvero sé stessa, ricca della propria fede, della certezza di non essere soli, che un Altro veglia su di te e i tuoi figli. Che anche in una cella buia, una piccola luce si ostina a brillare per te. E che a ogni persona, in fondo, è sempre chiesto solo di credere, avere fiducia, affidarsi. Perché tutto il resto, poi, è dato in aggiunta.
Nulla, né la condanna alla pena capitale, né le minacce di linciaggio, hanno potuto privare Asia Bibi della sua libertà più profonda, sfigurare quella dignità regale che conferisce la certezza di essere amati. Una libertà così vera, grande e dalla forza sconvolgente da far pensare che per reggerne tutto il peso, senza rimanerne schiacciata, Asia non sia rimasta sola. Una carezza del Nazareno deve averla raggiunta anche là, nel fondo di quella prigione a Multan, Pakistan centrale.