Grande organizzazione dei Giochi, barriere abbattute, pregiudizi e impacci radicati Il Giappone, non c’è dubbio, ha vinto la sua duplice scommessa. Olimpiadi portate a termine senza troppi problemi (ma il coraggio, o la testardaggine, secondo i punti di vista, di celebrarle ad ogni costo hanno alla fine costretto il premier Yasuhide Suga alle dimissioni), successo ancor maggiore per le Paralimpiadi conclusesi domenica scorsa, con una cerimonia per certi versi molto più suggestiva di quella olimpica, impeccabile per i suoi contenuti, per l’esecuzione – affidata a molti artisti disabili – e soprattutto per il messaggio che ha inviato non solo al miliardo e mezzo di disabili del mondo, ma all’intero pianeta. Eccoci qui, ci siamo anche noi, fateci entrare, una volta per tutte. Non solo attraverso la tv, che in questi giorni ha tenuto incollati al video (forse meno di quanto sarebbe stato auspicabile, in realtà) miliardi di persone, permettendo di condividere e celebrare assieme i successi strepitosi di questi atleti (come quello, irripetibile, della tripletta italiana nei 100 femminili), ma ogni giorno, per strada, sui mezzi pubblici, nei negozi, a scuola, in ufficio. Nella società, insomma. Di strada ce n’è ancora molta da fare. Tanto per cominciare, non si capisce perché le medaglie degli atleti paralimpici 'valgano' poco più di un terzo di quelle dei loro colleghi normodotati. Per una medaglia d’oro, il divario è enorme: 180mila euro per gli olimpionici, 75 mila per i colleghi paralimpici. Stesso discorso per gli altri metalli: 120 mila contro 40 mila per l’argento, 25 mila contro 6 mila per il bronzo. Non dovrebbe, se proprio deve esserci una differenza, essere il contrario? Sarebbe il giusto modo di esprimere ammirazione e riconoscenza – e fonte di grande orgoglio nazionale – che un Paese come il nostro, dove le 'barriere' sono ancora troppe e insormontabili, abbia raccolto un così ricco bottino di medaglie. Molto più del Giappone, ad esempio, che invece alle Olimpiadi ci ha surclassato, arrivando terzo assoluto. Se è vero che molti Paesi hanno fatto passi da gigante per quanto riguarda l’abolizione delle cosiddette barriere 'architettoniche' (segnaletica stradale, semafori acustici, percorsi dedicati in stazioni e centri commerciali) quelle più dolorose e nascoste, che potremmo chiamare 'sociali' sono ancora pesanti e diffuse. Soprattutto in Giappone, nazione sicuramente tra le più avanzate per quanto riguarda l’accessibilità (è qui, che già negli anni 60 del Novecento, vennero inventate le mattonelle tattili per non vedenti, oggi diffuse in tutto il mondo, ed è a Tokyo e in altre grandi città nipponiche che oramai oltre il 90% delle stazioni sono dotate di ascensori e altre strutture dedicate ai disabili), ma dove la diversità – di qualsiasi tipo essa sia, e i disabili, aldilà di ogni ipocrisia, 'diversi' lo sono – è guardata con sospetto, timore, e spesso vissuta con vergogna, se non con veri e propri sensi di colpa. Così, nel Paese architettonicamente forse più 'amichevole' del mondo, l’unico probabilmente dove un non vedente può da solo (i cani guida sono pochi e discriminati: non possono ad esempio entrare nei ristoranti, neanche quei pochi dove gli animali domestici sono autorizzati, a patto che siano nel marsupio o in passeggino) attraversare le strade, fare la spesa in un supermercato, prendere un autobus o un treno, di disabili in giro se ne vedono pochi. E sempre indaffarati. Difficile vederli agli spettacoli pubblici, ad esempio, o nei parchi. Pur di non provocare meiwaku ('disturbare', nella sua accezione più comune, ma anche 'stupire', 'dare nell’occhio', 'attirare l’attenzione', tutte attività socialmente reprensibili) finiscono per restarsene a casa, i più fortunati con qualche membro della famiglia, molti anche da soli, nella triste attesa di una visita di un parente o dei servizi sociali. Alcuni, pur di non 'disturbare', si lasciano morire. Tempo fa, in un appartamento nella periferia di Osaka, hanno trovato una coppia di anziani deceduti da molti giorni. Lei sdraiata per terra, sui tatami, lui seduto, sulla sua sedia a rotelle. Polizia e vigili del fuoco sono intervenuti solo a seguito di una segnalazione dei vicini. Preoccupati non per l’assenza della coppia, ma per il cattivo odore che proveniva dalla casa. Uno dei tanti casi di kodokushi, la 'morte in solitudine' una delle forme più tristi, dolorose e socialmente crudeli di suicidio. Da noi non succede, diremo quasi mai. Sicuri? © RIPRODUZIONE RISERVATA
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