L'eterna, dura domanda sul male e la Sua croce, i nostri calli e le cicatrici
domenica 31 luglio 2016
​Caro direttore,
le recenti tragedie, che hanno provocato, come peraltro tutte le precedenti, una falcidia di vite umane innocenti e persino l’assassinio di un sacerdote sull’altare, ripropongono – in particolare al credente – il drammatico tema del rapporto tra Dio e il male, della "responsabilità" di Dio. Insomma: della Teodicea. Che, mi pare, le Sacre Scritture hanno trattato senza fornire risposte del tutto convincenti per l’uomo "razionale". Certo, tanto più davanti, appunto, al dolore innocente (si pensi ai bambini in particolare), la tesi del male quale conseguenza del peccato dell’uomo, la tesi della giustizia "retributiva", che, già su questa terra, avrebbe premiato i buoni e castigato i cattivi, non è stata confermata, nella storia, dal Magistero. La sola risposta che resta in piedi, per il credente, resta allora quella che Dio dà a Giobbe, il famoso personaggio biblico toccato duramente dalle disgrazie. Una risposta che sostanzialmente significa: ma come ti permetti, tu, di giudicare quel Dio che, con la sua potenza, ha creato il cielo e la terra, con tutte le relative meraviglie, nell’ordine cosmologico, naturale, animale e umano? Certo, Giobbe, alla fine si convince («senza sapere nulla ho detto cose troppo superiori a me»; «io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto»), ma per noi è davvero dura.
Vincenzo Ortolina
 
Gentile direttore,
mi permetta di raccomandare ad alcuni miei confratelli sacerdoti di essere prudenti nel catechizzare in chiave di un assoluto «Dio mio, perché mi hai abbandonato?», chiedendo perché Dio non ferma la mano dell’assassino e non fa andare le cose come vogliamo noi. È la riproduzione del conturbante «Dov’era Dio ad Auschwitz?». È voler assimilare la legge morale con quella che ha dato Dio alle stelle. Dietro la buona volontà si può nascondere, l’assunzione di una teologia, un tempo troppo diffusa, che lega indissolubilmente peccato con castigo, ripescata in una superficiale lettura dei brani sapienziali contenuti nei capitoli 2-3 della Genesi; oppure di una teologia ingenua dell’onnipotenza divina, che assomiglia assai alla theologia gloriae giustamente rifiutata da Lutero. Riprendiamo in mano la teologia della kenosi (svuotamento) di Cristo, che trova un inaspettato sostenitore nella qabbalà del mistico ebreo Luria: nel creare, Dio si è imposto lo zimzum (contrazione) per cui fa posto, nel dare loro origine, ad altri esseri, che condividono con Lui la libertà. Così giungeremo a capire qualcosa del mistero grande del grido di dolore e di speranza di Gesù sulla Croce, ponendosi in relazione con Dio Padre che si rivela come Colui «che rifiuta la potenza» (Christian Duquoc).
Don Antonio Contri
 
Potrei cavarmela così: la vita (come la morte) ci interroga da sempre con tutto ciò che contiene comprese le sofferenze e le ingiustizie, il Vecchio Testamento (ah, il gran libro di Giobbe...) comincia la risposta, il Vangelo la completa, ma filosofi e teologi (non tutti, per fortuna) la complicano di nuovo. E vorrei fermarmi qui, per senso del mio limite. E perché, caro dottor Ortolina, non oso neanche accostarmi con il mio povero armamentario di cronista alle preziosità della Teodicea (da Theos, Dio, e dike, giustizia), cioè alla riflessione intorno alla giustizia divina e alla concreta presenza del male in questo mondo e nell’esperienza umana. Posso e voglio dirle, però, che sono contento di custodire in modo semplice, ma non semplicistico, le ragioni della speranza a cui si rifà il rapido, alto e denso richiamo di don Contri. Non ci sono regolette per scrivere una risposta non vana a sofferenza, sentenze ingiuste e sconfitte "secondo il mondo" accettate e capovolte in vittorie. C’è, anche per me, la risposta che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, dà con la sua croce: dolore appassionato e infinito, e infinita risurrezione. Tutto questo ci riguarda. È una certezza di bene disarmata ed esplosiva, offerta gratuitamente e mai conquistata una volta per tutte, che non riesce sempre ad alleviare il peso dei giorni terribili e dei vertiginosi errori e orrori che costellano la vita dei popoli e delle nazioni, ma dentro il tempo diviso che sperimentiamo riaccende e rincuora, dà senso alla fatica e al cammino. Non smettiamo di patire per noi stessi, per la follia del sangue versato e per ogni innocente dolore, per lo scandalo immenso della bontà crocifissa o sgozzata, ma attraverso il Figlio inchiodato, Colui che si è fatto «responsabile» di tutto il nostro male, abbiamo la libertà di alzare gli occhi all’Altissimo e di partecipare alla riedificazione dell’umano in ogni singolo uomo e in ogni singola donna che fanno pace non solo nelle proprie esistenze, ma rompendo il recinto delle false sicurezze e delle verità deragliate e mistificanti del potere, della razza, della tecnoscienza e – come purtroppo continuiamo a vedere – della fede ridotta a strumento del male assoluto. Sì, la risposta è Dio in croce ed è la pietra rovesciata, la morte sconfitta. La ragione aiuta a capirlo, ma davvero non basterà mai se non impariamo a "vedere" che la risposta che è Cristo continua a scriversi con le cicatrici e i calli di chi sta e resta all’opera per corrispondere con gioia, qui e ora, al dono di una così provvidenziale, travolgente e immeritata certezza... Essere «matita nella mani di Dio», ci ha spiegato Teresa di Calcutta. Non è mai facile, anzi – proprio come lei dice, caro Ortolina – spesso «è davvero dura». Ma ne vale la pena. E può accadere – come accadrà oggi – che la Messa, la memoria del sacrificio del Redentore, la festa del Figlio di Dio che per noi è morto e risorto, diventi più che mai "incontro", coinvolgendo anche coloro che credono diversamente da noi, i nostri fratelli musulmani che non intendono farsi "annettere" alla ferocia jihadista del Daesh e rivendicano, a loro volta, la gioia di essere miti strumenti del Dio della misericordia e della pace. Che sia così.
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