Proteste a Yangon contro il golpe militare - Ansa
L’appuntamento decisivo è fissato per lunedì 22, quando i ministri degli Esteri della Ue si riuniranno per decidere le sanzioni economiche da comminare alla giunta militare che ha promosso il golpe in Myanmar. Ipotesi verso cui spingono le organizzazioni non governative, i sindacati dei lavoratori e i rappresentanti del Parlamento birmano esautorato dai militari, sollecitando provvedimenti significativi e severi. Le misure, in realtà, sono state già concordate quasi interamente dagli ambasciatori dei 27 che svolgono il lavoro preparatorio per il consiglio degli Affari esteri, tanto che l’adozione dei provvedimenti, secondo una delle prassi dell’Unione, è “senza discussione”. Dalle indiscrezioni che trapelano, le sanzioni dovrebbero riguardare solo le personalità più direttamente coinvolte nel colpo di Stato – una dozzina di alti ufficiali dell’esercito e della polizia – per i quali verrebbe previsto il blocco dei beni trasferiti all’estero e interdetto l’ingresso in Europa. Misure decisamente troppo blande per essere efficaci e che non colpirebbero, come invece sarebbe necessario, le società e i business attraverso cui le Forze armate traggono profitto e alimentano il loro potere.
«Un’azione troppo blanda, inaccettabile » per il sindacato birmano Ctum e l’associazione Italia-Birmania.insieme che nei giorni scorsi hanno rivolto un appello all’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Joseph Borrell, e al nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio affinché l’Unione Europea «non continui ad agire a tutela degli interessi delle imprese europee, lasciando soli il popolo birmano e i loro legittimi rappresentanti a tutelare a mani nude i principi di democrazia, di libertà e di giustizia». Le associazioni chiedono invece che vengano adottati provvedimenti forti per colpire innanzitutto il “cuore” delle attività economiche del regime militare: la Myanmar Economic Holdings Limited (Mehl), presieduta dallo stesso Comandante in capo delle Forze armate, e la Myanmar Economic Corporation (Mec), le due conglomerate che hanno interessi in tutti i settori strategici del Paese: dalla ma- nifattura tessile alle telecomunicazioni, dall’estrazione mineraria all’alimentare, dal petrolio al legname.
Secondo l’associazione Italia-Birmania. insieme e i sindacati, inoltre, la comunità internazionale dovrebbe assicurare «il non riconoscimento all’Onu dei rappresentanti della giunta militare; l’approvazione internazionale di un embargo generale all’esportazione di armi verso il Myanmar; il ritiro delle credenziali degli addetti militari nelle ambasciate birmane in Europa; il congelamento delle riserve estere del Myanmar pari a 6,7 miliardi di dollari». E ancora, spiega Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione in stretto contatto con il comitato che rappresenta il Parlamento legittimo (Crph) «occorre agire sul piano delle imprese internazionali». In particolare quelle del settore petrolifero e del gas perché congelino le loro attività fino al ripristino della democrazia. Durante la precedente dittatura – spiega infatti Cecilia Brighi – tutte le sanzioni adottate dai singoli Paesi e dalla Ue escludevano proprio le aziende di questo settore strategico. Mentre solo una decisione internazionale, coordinata e concordata da parte delle organizzazioni che rappresentano le compagnie petrolifere e del gas potrà rendere effettivo il congelamento delle attività in Birmania, tutelando nel contempo i diritti dei lavoratori di queste imprese».
Decisivo, dunque, sarà anche l’atteggiamento che le multinazionali con produzioni in Birmania – a cominciare da quelle italiane – adotteranno nei confronti dei militari golpisti. La prima a prendere posizione in maniera molto netta è stata Benetton. Il gruppo di Ponzano Veneto, infatti, già il 12 marzo ha comunicato di aver «sospeso con effetto immediato tutti i nuovi ordini da Myanmar, visti i problemi di sicurezza e violazione dei diritti e della libertà nel Paese, dopo il colpo di Stato contro il governo di Aung San Suu Kyi». Sottolineando di «voler fare la propria parte come azienda per contribuire al rispetto dei diritti fondamentali della persona». Lunedì è stata invece la volta di Ovs che ha condannato con forza le violazioni dei diritti umani in Myanmar ponendosi «al fianco delle organizzazioni dei lavoratori» e sottoscrivendo l’appello lanciato da Clean Clothes (abiti puliti) e da molte altre Ong e sindacati internazionali. «Data la modesta entità delle produzioni attualmente realizzate – spiega una nota aziendale – Ovs potrebbe facilmente abbandonare il Paese, tuttavia fino a che sarà possibile continuerà a mantenere una ancorché limitata presenza in Myanmar, sospendendo qualsiasi attività con quei fornitori che effettuassero atti discriminatori contro i lavoratori impegnati nelle azioni di protesta». Dal colpo di Stato ad oggi, infatti, si sono già registrate 230 vittime della repressione e migliaia di arresti.
Prudente l’atteggiamento di altri gruppi italiani presenti nel Paese asiatico. Come la Danieli che si dice «preoccupata e attenta agli sviluppi della situazione », spiegando però di non avere al momento commesse significative in Myanmar, ma solo personale commerciale di rappresentanza. E così pure Eni, che è tornata in Birmania nel 2014 dopo la fir- ma di alcuni contratti per l’esplorazione di bacini. I blocchi ancora in esplorazione sono il RSF-5 onshore nel Bacino di Salin, a circa 500 chilometri a Nord di Yangon, attraverso una joint venture al 90% di Eni Myanmar B.v. e al 10% di Myanmar Production and Exploration Company Ltd. E il blocco offshore MD04 in joint venture al 20% con Petrovietnam Exploration Production Corporation Limited.
«Al momento, però – assicurano i portavoce del gruppo energetico – siamo alla fase dei calcoli e delle valutazioni, non c’è né attività estrattiva né di trasformazione». Dunque non c’è presenza di personale Eni espatriato e la società resta in attesa degli sviluppi della situazione. In effetti l’attività di Eni in Myanmar è piuttosto recente e limitata, per un settore che invece secondo le Ong assicura il 30% delle entrate in valuta del Paese asiatico, con investimenti diretti esteri per 43,6 miliardi di dollari nel 2019, grazie alla presenza di gruppi come Total, Fina, Chevron e Petronas. Diverso, infine, il caso di Geox che nel suo rapporto relativo al 2019 parla di una produzione effettuata in Myanmar pari al 18% degli oltre 18 milioni di scarpe prodotte. Il sindacato CTUM sottolinea le buone relazioni con il management della società taiwanese che fa da intermediaria nella fabbrica birmana, ma la Geox non ha risposto alle nostre domande circa l’atteggiamento che adotterà dopo il golpe.
Ora l’attesa è dunque per le decisioni dell’Unione Europea su sanzioni ed embargo. Ma la responsabilità d’impresa si misura anche sulle scelte, autonome, che stanno a cavallo di due esigenze: non far venire meno investimenti e lavoro per i cittadini di Myanmar e al contempo essere parte attiva nella difesa della democrazia di un Paese e della libertà di un popolo.