I dettagli sono spesso decisivi o comunque illuminanti, perché danno la giusta chiave di lettura dell’insieme di cui fanno parte. Esemplare la risoluzione del Parlamento Europeo «Minacce al diritto all’aborto nel mondo: possibile revoca del diritto all’aborto negli Stati Uniti d’America da parte della Corte Suprema». Tredici pagine per un quadro allarmato di quello che fin dal titolo viene definito come 'diritto': l’aborto.
Di conseguenza qualsiasi regolamentazione che lo limiti, anche se legittimamente decisa da singoli Stati, viene stigmatizzata e indicata come ostacolo da superare, invitando le autorità competenti Usa a «depenalizzare completamente l’accesso e la prestazione dei servizi di aborto» e l’Unione Europea «a inserire il diritto all’aborto» nella Carta dei diritti fondamentali. Il testo è unidirezionale e non dà spazio a considerazioni differenti né a sfumature nei toni – per esempio, al fatto che se un diritto alla scelta c’è, almeno sia pari a quello di essere messe in condizioni di poter scegliere di essere madri, e sostenute se c’è una richiesta in tal senso.
D’altra parte, in quel testo del diritto alla vita del nascituro si sono perse le tracce: il tono è netto, deciso, senza se e senza ma. La «minaccia » è la possibile revoca della sentenza Roe vs Wade da parte della Corte Suprema americana, ma vengono indicati anche Stati con una preoccupante «regressione » nel «diritto all’aborto», fra i quali il nostro Paese: «Anche in Italia l’accesso all’aborto sta subendo erosioni», recita il testo, che rimanda a una nota a piè di pagina in cui ci si aspetta siano inseriti riferimenti con dati che dimostrano l’accusa.
Un dettaglio, insomma, che però in questo caso dice esattamente l’opposto di quanto affermato nel testo: andando a questo link, si può trovare la risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 6 luglio 2016, in risposta a un contenzioso della Cgil di tre anni prima. Il sindacato aveva fatto ricorso protestando, in sintesi, gli impedimenti all’accesso all’aborto in Italia a causa del ricorso elevato all’obiezione di coscienza. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha risposto con la risoluzione sopra citata, in cui prende atto delle informazioni date dal governo italiano e «accoglie con favore gli sviluppi positivi »: nessuna condanna, quindi, per l’Italia, nessuna citazione di ostacoli all’accesso all’aborto.
E allora? È questa la documentazione sull’«erosione» dell’accesso all’aborto nel nostro Paese? E ancora: con che criterio è stata costruita questa super-risoluzione, così netta e decisa nell’affermare un diritto e nel denunciarne gli impedimenti? Con quali dati, con quali considerazioni, con quale logica? Ma torniamo all’Italia e alla nota a piè pagina, dove sono riportati i dati sodi e algidi che dimostrano come la legge 194 viene applicata per quanto riguarda sia l’obiezione di coscienza sia l’accesso all’aborto, con 1,6 aborti a settimana per ogni non-obiettore, considerando 44 settimane lavorative in un anno.
Si tratta di una media nazionale, che viene poi riproposta per ciascuna Regione e anche per ciascuna Asl/Distretto all’interno di ogni Regione. Proprio così: il Ministero ha trasmesso in Europa dati nazionali, regionali e anche locali sul carico di lavoro dei nonobiettori: non esiste al mondo una raccolta tanto sistematica e completa, nonostante qualcuno continui a protestare addirittura la mancanza di dati adeguati in merito. Resta il fatto di una risoluzione sul diritto all’aborto con l’Italia nella lista dei Paesi 'cattivi', ma con dati che dimostrano il contrario. Dovrebbe piuttosto allarmare la scarsa e contrastata applicazione della legge 194 nella parte in cui impegna le strutture pubbliche ad aiutare la donna e madre a superare le cause che spingono all’interruzione di gravidanza (ciò che fanno, 'dal basso', i Centri di aiuto alla vita). Tutto questo è surreale. Il dramma della soppressione di una vita umana e della lacerante decisione di una donna (e di che le sta, o non le sta accanto) merita innanzitutto onestà intellettuale e politica.