«Ogni giorno qui dentro è un venerdì di passione. Ci sarà la resurrezione?». La domanda di un detenuto incontrato in questi giorni in carcere è un pugno nello stomaco. Conosciamo bene le condizioni di vita dei nostri penitenziari (e questo giornale se ne fa eco da tempo). Il numero dei suicidi – già ventotto quest’anno, l’ultimo solo due giorni fa nel carcere di Sassari-Bancari – è solo la punta di un gigantesco iceberg che parla di sovraffollamento, violenze, precarietà, scarse occasioni di lavoro e di studio. Per molti, per troppi, l’articolo 27 della Costituzione – in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato – rimane un miraggio. C’è dunque più di un motivo per cedere alla disperazione.
Eppure la speranza può rimanere testardamente accesa. Hannah Arendt scriveva che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per ricominciare». Cosa permette di ricominciare, anche quando tutto intorno sembra congiurare contro questa possibilità? In questi giorni riviviamo la memoria di un fatto che è all’origine di una inesauribile speranza: il sacrificio di Chi ha condiviso il nostro dolore, il dolore di tutti, e ha offerto la vita per redimere il male che abita in ciascuno di noi.
Morire per amore sembra qualcosa di inconcepibile nella cultura che respiriamo e che noi stessi alimentiamo, eppure è il lascito che Cristo ha consegnato all’umanità. E il suo sacrificio – bisogna avere il coraggio di dirlo senza mezzi termini e senza il timore di turbare chi non ci crede – è l’unica fonte di speranza, l’unica risorsa che permette di non restare inchiodati alla fragilità che accompagna ogni umana esistenza.
Vale per tutti, e in maniera più bruciante per quanti scontano in carcere la pena per il male commesso.
L’uomo non è riducibile al suo errore, nel cuore di ogni persona abita un anelito alla felicità che nessuna situazione avversa - neppure il buio di una cella - riesce a spegnere, perché questo anelito è qualcosa di inestirpabile, è insito nella natura di ogni persona. E a questo anelito viene incontro l’abbraccio di un Dio che condivide la condizione umana fin nelle sue intime pieghe, per dare un senso a ogni momento dell’esistenza, anche al dolore. Lo esprime in maniera diretta ed efficace papa Francesco: «All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce».
Se Gesù, nel giorno della sua morte, ha promesso il Paradiso al buon ladrone crocifisso accanto a lui, c’è una speranza per tutti i detenuti.
Ed è la medesima speranza che può alimentare l’esistenza di ognuno di noi.