Durante la pandemia di Covid-19 sono state individuate diverse correlazioni legate alla diffusione del virus. I ricercatori hanno segnalato ad esempio possibili legami con i livelli di inquinamento, le temperature, la frequenza delle relazioni tra le generazioni, la struttura demografica. Non sempre è facile dimostrare un rapporto di causa-effetto, ma questo tipo di studi offre sempre buoni spunti di riflessione. Si è anche visto che i contagi si accompagnano ai livelli di mobilità di un territorio e alla presenza di grandi infrastrutture di trasporto. L’area di Wuhan, Milano-Bergamo, l’Île-de-France, Londra, New York, sono contesti metropolitani particolarmente colpiti dal Covid-19 e con caratteristiche simili in termini di densità degli spostamenti. L’ipermobilità che caratterizza il nostro mondo potrebbe cioè essere uno dei tanti elementi capaci di favorire i progetti pandemici del virus.
Le nuove consapevolezze emerse nel corso della pandemia hanno spinto a elaborare analisi e confronti sulla necessità di riprogettare il modo di vivere le città, anche a prescindere dal coronavirus, cogliendo l’opportunità per pensare di più alla qualità della vita. “Avvenire” ha ospitato diversi interventi in questa direzione (con articoli tra gli altri di Leonardo Becchetti, Franco La Cecla, Francesco Gesualdi, Giovanni Sanesi), rafforzando l’idea che le crisi possono agire come incentivo a favore di quei cambiamenti che diversamente non si avrebbe il coraggio di perseguire. La paura del virus ha spinto ad esempio a considerare anche in Italia la possibilità di spostarsi in modo diverso nelle aree urbane, riscoprendo le due ruote e le infrastrutture che ne possono facilitare l’uso. La gravità delle malattie polmonari dovute anche allo smog sta suggerendo l’adozione di misure più drastiche per contenere l’inquinamento. Il confinamento ha fatto capire che più verde nelle città aiuta a stare meglio e può non costringere alle fughe fuori porta nei fine settimana. Allo stesso modo lo smart working ha permesso di capire che in tanti casi la presenza fisica in ufficio non è necessaria, che lo spostamento può avvenire in giorni e orari diversi dal solito, ma anche che non sempre la residenza in una metropoli è fondamentale.
Una delle suggestioni alimentate dal coronavirus guarda alla riscoperta dei borghi persino nell’ottica di una riflessione più ampia su cosa possiamo considerare veramente essenziale. In un intervento recente dedicato proprio al «declino della geografia dell’ipermobilità», il demografo francese Gérard-François Dumont ha usato un termine efficace parlando di «diritto alla mobilità digitale». Anche dovesse finire la pandemia, in sostanza, non sarebbe sbagliato immaginare di investire maggiori risorse nelle reti che possono emancipare le persone dall'obbligo di muoversi.
Il tema della libertà dalla costrizione del pendolarismo è un aspetto che andrebbe preso in seria considerazione. In gioco c'è il ripensamento della funzione delle città, ma anche la riscoperta di economie locali che la globalizzazione e un certo modello di sviluppo hanno spinto ai margini. Forse è il momento di riflettere sul fatto che grazie al telelavoro è possibile riprogettare il territorio in senso multicentrico, immaginando una rete di borghi nella quale le città svolgono un ruolo di hub economici. O pensare che attrazioni, musei, ospedali, uffici possono essere dislocati diversamente, e che gli spostamenti tra centri e periferie non debbano avvenire necessariamente in un'unica direzione.
Con una parte infinitesimale delle spese necessarie a costruire o ampliare strade, aeroporti e ferrovie si possono realizzare reti e infrastrutture digitali capaci di rendere le persone libere di scegliere dove vivere, quando e come spostarsi, e dunque di decidere anche “come” vivere. È una questione ambientale, ma allo stesso tempo è una sfida molto umana.