Declino, decrescita, recessione. Tutti termini che, ripetuti senza tregua dai mezzi di comunicazione, sono ormai entrati a far parte del linguaggio comune e dei discorsi quotidiani. La preoccupazione ricorrente è di dover "andare indietro" invece che progredire, di "perdere terreno" lungo la via della crescita e della qualità della vita. Ma non è solo l’economia a togliere il sonno agli italiani del nostro tempo. Un altro ambito da cui arrivano indicazioni di continuo regresso è quello della demografia, dove i segnali di declino si manifestano nei fenomeni che segnano il futuro delle persone e della società.
Chi pensava che il 2015 – l’anno passato alla storia per la più bassa natalità di sempre e per un calo di popolazione che non si ricordava dai tempi della Grande Guerra – dovesse rappresentare un caso eccezionale, deve ricredersi.Abbiamo appena scoperto che i 222mila nati nel primo semestre del 2016 sono il 6% in meno di quelli registrati nello stesso periodo dello scorso anno (236mila) e che il corrispondente saldo naturale (nati-morti) è già "in rosso" per 93mila unità. Tutto lascia supporre che su base annua si arrivi al nuovo record (al ribasso) di 456mila nati e a un saldo naturale negativo per quasi 150mila unità. Se qualche mese fa si parlava provocatoriamente della scomparsa dei matrimoni religiosi entro il 2031 – essendosi ridotti mediamente di 6mila unità ogni anno durante l’ultimo ventennio – che dire della prospettiva di una "natalità zero"?
A questi ritmi di decrescita, 30mila nati in meno ogni anno, basterebbe un quindicennio e, guarda caso ancora nel 2031, avremmo chiuso con quello che è da sempre l’evento gioioso che celebra la vita: il primo vagito di un bimbo. Potremmo così riconvertire i reparti di ostetricia in unità geriatriche, sostituire pannolini e passeggini con pannoloni e deambulatori, e finalmente smettere di adoperarci (spesso con sacrifici) per dare ai nostri figli un’istruzione, una casa, un lavoro, in un parola: un futuro.
Avremmo quindi la prospettiva di sopravvivere in un mondo di pensionati – senza per altro immaginare qualcuno che ci paghi la pensione – immersi nel presente e in attesa che si esaurisca quella che in demografia è chiamata "l’aspettativa di vita". Follia? Fantascienza? Pessimismo cosmico? Forse. O più semplicemente un gioco di numeri che però mira a sottolineare, con la forza del paradosso, la pericolosità di quelle tendenze su cui ripetutamente abbiamo richiesto, alla società e a chi ne ha le leve di comando, più attenzione e più azioni capaci di contrastarne le dinamiche e gli effetti. «Senza nascite non c’è futuro» titolava Avvenire giusto quattro anni fa (25 ottobre 2012) richiamando il messaggio della Cei per la 35a Giornata nazionale per la vita. E quel messaggio non solo non ha perso attualità, ma è andato sempre più assumendo i toni di accorata preoccupazione.
Una preoccupazione che si è accresciuta partendo dalla stessa diagnosi di quattro anni fa, ulteriormente aggravata dal fatto che mentre il "paziente Italia" segnalava allora 534mila nascite, oggi ne conteggia quasi 80mila in meno: abbiamo perso nell’ultimo quadriennio il 15% dei nati. Altro che calo del Pil!
E la terapia? Quella resta la stessa di allora ed è di comprensione immediata: più famiglia. Un "più famiglia" da declinare con azioni concrete, orientate a recuperare equità nella imposizione tributaria e nelle politiche tariffarie, a favorire la conciliazione nel mondo del lavoro, a rendere accessibili i servizi di cura e a sviluppare politiche abitative a misura di famiglia. Si tratta di attivare iniziative di "politica demografica e familiare" che, senza venir circoscritte alla sola sfera dell’emersione dalla povertà/esclusione sociale (come si è soliti pensarle) abbiano carattere universale. Perché c’è bisogno di coinvolgere, e se necessario supportare (quand’anche in modo differenziato ma con un comune segnale di gratificazione), l’intero universo familiare che è chiamato a svolgere un difficile impegno nella produzione e formazione del capitale umano di cui il Paese non può fare a meno. Il tutto senza tergiversare inseguendo le aspettative (di comodo) secondo cui il problema della denatalità verrà magicamente risolto grazie al contributo dell’immigrazione – importante ma certo non risolutivo – o a seguito di alquanto improbabili nuovi comportamenti capaci di generare spontanee inversioni di tendenza.
Non illudiamoci, senza un forte segnale di attenzione da parte della società e della politica prevarrà sempre l’inerzia dettata da orientamenti culturali e da condizioni di contesto che certo non sono favorevoli a chi ha (più) figli.Riguardo poi a chi dovrebbe farsi carico della progettazione e dell’esecuzione dei necessari interventi di natura terapeutica sulla "demografia malata" di questa nostra Italia, va purtroppo ancora denunciata la persistente grave latitanza da parte delle istituzioni e della politica, oggi come quattro anni fa. D’altra parte, se è vero che ogni azione con riflessi (diretti e non) in ambito demografico richiede un’ottica lungimirante, coerente nelle scelte e paziente nell’attesa dei frutti – si semina oggi per raccogliere dopodomani – è anche vero che essa mal si concilia con una classe politica che ha un respiro di breve periodo. I tempi della demografia sono la distanza tra due generazioni (oggi circa trent’anni), mentre quelli della politica guardano, nel caso migliore, la durata di una legislatura (cinque anni).
Chi rischia il consenso elettorale in nome di un intervento con ricadute in campo demografico – magari con scelte controverse che ridisegnano la redistribuzione di risorse scarse – vorrebbe quell’immediato riscontro che, viceversa, la natura stessa dell’oggetto dell’intervento diluisce nel tempo. Che fare dunque per eliminare il gap? Occorre svolgere un paziente lavoro, anche sul piano della comunicazione, per far nascere una cultura condivisa del cambiamento demografico come fenomeno da conoscere, nelle manifestazioni e nelle conseguenze, ma soprattutto da poter governare di comun accordo, accettando e ripartendoci gli eventuali costi e i sacrifici che derivano da scelte che mirano al bene comune. Ben consapevoli che anche in un mondo globalizzato, con una popolazione in crescita e sempre più aperta alla mobilità, le grandi problematiche sul fronte demografico sono e restano "locali". Il crollo della natalità in Italia va innanzitutto risolto in Italia, restituendo a chi vive nel nostro Paese, con o senza il passaporto italiano, il coraggio di costruire il proprio futuro e il piacere di farlo insieme a tanti altri.