All’ordine del giorno nel dibattito pubblico oggi non c’è la sanità in sé stessa, con la complessità dei bisogni di salute emergenti, ci sono invece i tagli alla sanità, quelli che definiscono l’area di scontro tra maggioranza e opposizione. La sanità è diventata uno di quei ring in cui i due contendenti sono più impegnati a lottare tra di loro che non a cercare soluzioni per risolvere i problemi di salute dei cittadini, che hanno sempre più carattere socioassistenziale. E i cittadini dopo aver visto vari Tg, dopo aver partecipato ad alcuni talk show, dopo aver consultato vari siti web, ancora si chiedono ma i tagli ci sono o non ci sono, e se ci sono chi ha tagliato di più?
La risposta è semplice: i tagli ci sono, ma in passato ve ne sono stati molti di più; la sinistra al governo ha tagliato molto di più, anche perché al governo c’è stata di più. Secondo la Nadef -Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza- la spesa per la sanità passerà nei prossimi anni: dal 6,7 per cento del Pil del 2022 al 6,6 per cento del 2023 e al 6,2 per cento dal 2024 in poi. In numeri assoluti si scende dai 134,7 miliardi di quest’anno ai 132,9 del prossimo anno. Nel Report di Gimbe si legge però che il Servizio sanitario nazionale ha perso 37,5 miliardi di euro tra il 2010 e il 2020, quando erano al governo i tecnici di Mario Monti, i politici del Pd di Letta, Renzi e Gentiloni; i due esecutivi del M5S e infine Mario Draghi. Non poco, e sicuramente con le migliori intenzioni del mondo, ma con risultati che alla distanza appaiono disastrosi.
Il problema dominante riguarda infatti l’attuale modello del Sistema Sanitario Nazionale, che dopo 45 anni ha bisogno di una sostanziale revisione, perché sono cambiati sia il quadro demografico, che quello economico-finanziario e tecnico-scientifico. Ma a ridisegnare il sistema sanitario nazionale, conservandone i valori e lo spirito con cui è nato, facendone però finalmente un sistema sociosanitario moderno ed efficiente non pensa proprio nessuno. Prevenzione e riabilitazione, che costituirebbero il vero motore di una sanità in movimento verso il futuro, restano quindi condannate al ruolo di cenerentole del Ssn.
Ci troviamo davanti ad una società sempre più anziana e la risposta ai suoi bisogni non può essere solo l’ospedale. Occorre potenziare il territorio con un nuovo modello di medicina territoriale, per cui servono nuove forme di accreditamento anche per strutture convenzionate, in grado di garantire una assistenza di qualità ai pazienti più fragili e alle loro famiglie. Ma servono anche modelli teorici meno ideologici e più orientati alla soluzione dei problemi più urgenti.
Tutta la dialettica sul rapporto tra Case della Comunità e case Casa della Salute, il loro rapporto spoke-hub (centro principale-centri periferici), non ha prodotto nessun miglioramento effettivo, almeno nella percezione che ne hanno i cittadini. Certamente per un professionista o per un paziente non è la stessa cosa lavorare o essere curato in una CdC spoke (centro d’eccellenza) o in una CdC hub (struttura locale) in quanto a opportunità professionali, servizi o assistenza offerti. Mentre proprio il principio di gratuità e universalità dei servizi offerti dal Ssn, dovrebbe garantire a tutti pari opportunità.
La curva demografica disegna una piramide rovesciata, con oltre 15 milioni di anziani over 65, di cui la metà sono over 75. La maggioranza di loro vive sola o in compagnia di un altro anziano; entrambi affetti da qualche patologia cronica a carattere progressivo, che non si risolve con la semplice assunzione di farmaci, per quanto mirati. Hanno bisogno di una assistenza sociosanitaria, in cui l’accento va posto proprio sull’aspetto sociale.
Bisogna mettere in campo riforme coordinate tra Stato e Regioni per creare modelli semplificati e deburocratizzati, con cui poter soddisfare le esigenze emergenti di carattere socioassistenziale. I cittadini percepiscono come ingiusto non ottenere tempestivamente ciò di cui hanno bisogno: approfondimenti diagnostici, appuntamenti ambulatoriali, eventuali ricoveri. È vero che per la sanità c’è bisogno di più risorse economiche, ma quelle da sole non risolvono i problemi. Tra i problemi più spesso denunciati dai cittadini ci sono i ritardi cronici per ottenere la dovuta attenzione. Sulle attese dei cittadini insistono, tra gli altri, due fattori: la richiesta di visite e di analisi non appropriate, che tolgono tempo e energie destinate a obiettivi essenziali per la diagnosi o per monitorare il trattamento.
Altre volte le attese si allungano perché mancano i clinici di ampia e profonda formazione generale; quelli che una volta erano in grado, nella maggioranza dei casi, di giungere alla diagnosi esatta con un ragionamento clinico supportato dalla diagnostica di laboratorio e potevano prescrivere il trattamento più idoneo, sulla base delle linee guida esitenti. Ma forse un problema che si sta imponendo adesso all’attenzione generale è quello della mancanza della stima e dell’apprezzamento sociale nei confronti del personale sanitario, medici compresi, e più di una volta abbiamo assistito a scene di violenza (anche grave) contro di loro da parte di pazienti o di congiunti di questi ultimi.
Manca anche una adeguata collaborazione tra medici di famiglia, o di base come si diceva una volta, e la struttura ospedaliera. La vera cerniera tra territorio e ospedale è rappresentata proprio da loro, che hanno bisogno di una adeguata valorizzazione sia a livello istituzionale che presso l’opinione pubblica. Ospedale e territorio non sono due sottosistemi della sanità che non comunicano tra di loro; c’è un unico Ssn, che si esprime con modalità diverse, ma integrate tra di loro e dialoganti.
La frammentazione del Ssn e la dispersione dei servizi costituisce per i pazienti una sorta di labirinto in cui è difficile orientarsi, per cui essi passano da una struttura all’altra in cerca di qualcuno che li ascolti e li aiuti a risolvere i loro problemi. Si crea così un ennesimo spreco di risorse economiche. Viene spesso denunziata la migrazione interna di pazienti e professionisti dal pubblico al privato convenzionato e si sottovaluta come gli uni e gli altri, per evitare la sindrome da stress, siano alla ricerca di ordine nella organizzazione, di rispetto e di fiducia reciproca nella relazione; tutte cose oggettivamente più difficili da ritrovare nelle strutture megagalattiche in cui la moltiplicazioni dei ruoli rende difficile sapere esattamente a chi rivolgersi e la digitalizzazione avanzata rende le attese ai vari centralini eterne e prive di calore umano.
Il Ministero della Salute sta facendo la sua rivoluzione organizzativa, speriamo che dal ministero si passi al Ssn, per spendere meglio prima ancora che per spendere di più; e valorizzare i nostri medici, i nostri infermieri, evitando che emigrino all’estero in cerca di riconoscimento di ruolo più ancora che di aumenti di stipendio.