È necessario distogliere lo sguardo da sé stessi, per vedere molto: anche di questa durezza hanno bisogno tutti coloro che salgono le montagne
(F. Nietzsche - Così parlò Zarathustra)
«L’esperienza insegna che il momento più critico per i cattivi governi è quello che registra i primi passi verso la riforma». Questa frase del filosofo e politico Alexis de Tocqueville (L’antico regime e la rivoluzione, 1856), è la base della cosiddetta “Legge” o il paradosso di Tocqueville. Per comprenderla è utile leggerla insieme a un altro brano: «L'odio che gli uomini nutrono nei confronti dei privilegi aumenta in proporzione al ridursi di questi ultimi, cosicché le passioni democratiche sembrano bruciare più ferocemente proprio quando hanno meno combustibile… L’amore per l’uguaglianza cresce costantemente insieme all'uguaglianza stessa» (Democrazia in America, 1840). Il (geniale) paradosso di Tocqueville suggerisce quindi un rapporto complesso tra le intenzioni dei riformatori e gli effetti non-intenzionali della riforma, che sono sempre quelli più importanti. Le aspettative generate nel popolo dai primi segnali di riforma non possono essere soddisfatte dai risultati raggiunti dai riformatori. Questa “legge” non è solo utile per capire la storia e il presente dei regimi dittatoriali che non di rado crollano proprio mentre iniziano le riforme democratiche o solo per comprendere perché altri regimi resistono con violenza di fronte alle prime richieste di diritti. In realtà, l’intuizione di Tocqueville ha una portata molto più ampia, perché può valere per ogni processo di riforma di organizzazioni, imprese e comunità.
Pensiamo a un’azienda che vive una grave crisi legata alla necessaria uscita di scena dell’imprenditore-fondatore che però continua a detenere potere e controllo. Se il fondatore di fronte alle richieste del corpo aziendale inizia a delegare parte del potere, questo processo partecipativo può finire per far esplodere la crisi. Perché, suggerisce Tocqueville, non appena i collaboratori in crisi per cronica carenza democratica vedono i primi segni di cambiamento, iniziano a chiedere molto di più di quanto l’anziano imprenditore voglia e soprattutto possa fare. Queste richieste vengono quindi da lui percepite come eccessive e ingiuste, e spesso producono l’interruzione del processo partecipativo e esasperano le crisi in corso. Un corollario di Tocqueville direbbe dunque che nelle fasi di “fine regime” la soluzione migliore è il passaggio totale a una nuova proprietà e/o management, il fondatore dovrebbe ritirarsi e rinunciare ai processi di auto-riforma.
Ma l’intuizione di Tocqueville è particolarmente preziosa anche per comprendere qualcosa dei processi che stanno vivendo molte Organizzazioni a Movente Ideale (Omi), comunità carismatiche, associazioni, movimenti spirituali fondati nel ‘900 e che oggi, dopo la scomparsa dei fondatori, si trovano dentro processi di riforma. Questa legge lancia innanzitutto un messaggio ai riformatori: quando iniziate una riforma seria sappiate che le critiche aumentano, esplodono, perché le aspettative di riforma crescono molto più velocemente delle vostre riforme. Ma c’è di più. Se si osservano queste istituzioni ecclesiali e civili ci accorgiamo che molte di quelle che stanno tentando riforme stanno in realtà alimentando la loro crisi. Perché? Per restare alla suggestione del filosofo francese, i governi delle comunità che oggi stanno guidando la transizione sono inevitabilmente “cattivi” – non nel senso morale ma sul piano pratico, in quanto unfit, inadatti per le nuove sfide che devono o dovrebbero affrontare.
Una ragione principale di questa oggettiva inadeguatezza ha a che fare con la difficile gestione dell’eredità del passato. La forma di governo ereditata era stata disegnata sulla base delle persone dei fondatori, delle loro idiosincrasie e caratteristiche carismatiche; e in quanto tale poteva funzionare solo con e per i fondatori. Quella prima governance era un vestito fatto sulle misure della prima generazione. E anche quando, nei casi più felici, i fondatori hanno fatto di tutto per sganciare la “regola” dalle loro persone, non ci sono riusciti perché non potevano riuscirci. La “realtà è superiore all’idea”, e la sola realtà che i fondatori e i loro collaboratori avevano di fronte per immaginare la governance era la loro realtà concreta, il futuro non era una risorsa a loro disposizione. Quindi hanno disegnato una governance a loro immagine e somiglianza, adeguata quindi per gestire un’istituzione in quel particolare periodo storico, con quelle domande e problemi specifici. Non potevano fare altro. Hanno poi immaginato che chi sarebbe venuto dopo di loro avrebbe continuato la stessa dinamica relazionale della prima generazione, che sarebbero cambiate solo le persone ma gli “otri” (strutture) e il “vino” (carisma) sarebbero rimasti gli stessi, dalla funzione di presidenza fino ai ruoli periferici. Ma – e qui sta il punto decisivo – nessun successore può svolgere la funzione del fondatore perché era unica, irripetibile e quindi non-replicabile, come lo era il modello di governance centrato sulla sua figura. E come se non bastasse, in questo inizio di millennio la velocità della storia ha trasformato venti anni in due secoli, stravolgendo tutto.
Da qui un messaggio cruciale: la prima riforma radicale alla quale una comunità post-fondatore dovrebbe mettere mano è proprio quella della governance pensata dai fondatori. Se, invece, considera la prima governance come parte essenziale dell’eredità, come un elemento del nucleo immodificabile del carisma, la transizione tra la prima e seconda generazione può incepparsi e fallire.
Ma c’è un grosso problema: molte comunità spirituali amano le riforme dei piccoli passi, per poter coinvolgere tutti i protagonisti nelle decisioni, ascoltare i dissensi, vagliare e poi alla fine cambiare. E si capisce, perché tutto ciò è un valore. La legge di Tocqueville dice però altro: dopo la scomparsa dei fondatori c’è bisogno di una discontinuità assoluta e radicale di governance e governo, perché le crisi dei sistemi non si spiegano né superano finché si resta dentro il sistema che le ha generate. Siamo quindi di fronte a scelte tragiche: occorre decidere se andare piano per coinvolgere possibilmente tutti col rischio realissimo che quando arriveremo alla fine la “malattia” sarà diventata troppo grave e incurabile; oppure fare scelte parziali, poco partecipate, veloci ma capaci di curare il corpo finché siamo ancora in tempo. Questa seconda opzione richiede che chi riforma abbia una qualche idea della diagnosi e magari della terapia – che raramente c’è, perché non si coglie un fattore essenziale: non deve evolvere soltanto la governance, deve evolvere anche il carisma che cambia perché e finché è vivo (un carisma immodificabile è un carisma morto).
Il giusto re Ezechia quando iniziò la sua grande riforma religiosa si trovò di fronte ad una scelta decisiva: cosa fare dell’eredità di Mosè?! Tra le “reliquie” di Mosè c’era il serpente di bronzo con cui salvò nel deserto il popolo dai serpenti (Numeri 21). Ezechia «fece a pezzi il serpente di bronzo, che aveva fatto Mosè» (2 Re 18,4); quel re giusto fu capace di fare quella riforma decisiva perché ebbe il coraggio di eliminare una parte dell’eredità di Mosè: il serpente aveva svolto una funzione buona nell’origine ma in quella fase di riforma era diventato un ostacolo - aveva assunto tratti idolatrici. Ezechia conservò l’Arca dell’alleanza ma non il serpente: erano stati entrambi voluti e realizzati da Mosè, ma Ezechia distinse, separò, decise, tagliò. Scelse, e la Bibbia lo ha ringraziato.
Ogni riforma si blocca o produce effetti perversi se non si prova a distinguere l’arca dal serpente, se si salva tutto (arca e serpente) o se non si salva nulla (si distruggono entrambi). Occorre scegliere, anche rischiando di salvare il serpente e distruggere l’arca – una scelta sbagliata è preferibile ad una non-scelta. È probabile che la prima governance voluta dal Fondatore sia parte del serpente, anche se spesso viene confusa con l’Arca. E così per timore di tradire l’origine si finisce per tradire il futuro.
l.bruni@lumsa.it