Il tentativo di dipingere il Manifesto di Ventotene come un testo biecamente statalista, nemico della proprietà privata e del mercato è maldestro e grossolano. Ernesto Rossi, autore del Manifesto insieme a Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, scrisse il terzo capitolo del volumetto, quello dedicato ai cruciali temi economici. Ernesto Rossi era un liberal-socialista o, se si preferisce, un socialista liberale, era amico e discepolo di Luigi Einaudi dal quale apprese la cultura economica liberale ed anche le pulsioni sociali volte a mitigare le asprezze del mercato tipiche del pensiero dell’intellettuale di Dogliani.
Chi leggesse con attenzione il terzo capitolo dedicato alla “Riforma della società” si accorgerebbe che il primo aspetto riguarda proprio il rifiuto della «statizzazione dell’economia» definita come un regime – questo sì - in cui la popolazione è «asservita ai burocrati gestori», in poche parole ai pianificatori. Scorgerebbe che Rossi rifiuta l’equazione tra socialismo e collettivizzazione generale e che afferma invece che le «gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale» devono essere convogliate, attraverso opportuni “argini” verso «gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività». Un limpido pensiero liberale e socialista che, in quegli anni, si preoccupava di prendere le distanze sia dal crudo liberismo sia dall’esperienza dell’Unione sovietica.
Alcuni hanno voluto contestualizzare i contenuti del Manifesto agli anni del nazifascismo e si è pure lasciato pensare che i tre, nella cattività di Ventotene, fossero scollegati dal mondo. Niente di più sbagliato: grazie a molti escamotage e a innumerevoli rischi, i libri e la corrispondenza arrivavano nell’isola. Inoltre i tre erano figli dell’internazionalismo antifascista degli Anni Trenta, esuli nelle capitali europee avevano da Ventotene una visione del mondo ben più ampia di molti altri.
Il punto economico su cui si regge la concezione dell’Europa unita del Manifesto è evidente più volte nel testo: i «sentimenti protezionistici» e le barriere doganali possono condurre «all’urto e alla concorrenza anche tra due democrazie». Dunque alla guerra come era stato negli Anni Trenta. Altro che temi vecchi di ottant’anni, questa è scottante attualità.
Il pensiero di Rossi sulla proprietà privata è semplicemente e giustamente rivolto a combattere i monopoli che quando «sono in condizione di sfruttare la massa dei consumatori» possono essere nazionalizzati. Come farà di lì a poco, sulla scia dei convegni del Mondo, il centrosinistra e come ancora oggi si fa persino negli Stati Uniti.
Il Manifesto propone anche l’estensione della proprietà dei lavoratori con gestioni cooperative e azionariato operaio (un po’ come fa la Cisl oggi). E perora la causa dei giovani per i quali «vanno ridotte al minimo le distanze tra le posizioni di partenza». Un ulteriore messaggio, per nulla scontato, va al Welfare: solidarietà e interventi «verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica». Un principio liberale che Ernesto Rossi, in seguito, integrerà con l’utopia di «Abolire la miseria» dove propone una sorta di servizio civile dei giovani al posto del servizio militare per produrre beni primari destinati ai più poveri.
Qual è il centro delle posizioni di Ernesto Rossi che, sulla scia di Einaudi, non amava molto neppure Keynes? Il centro è la possibilità di coniugare lo Stato e il mercato, vedere dove può arrivare l’uno e l’altro. È il tema fondante del riformismo del Dopoguerra: lo stesso spirito aleggia nella Camaldoli di Paronetto, nel Piano Beveridge della Gran Bretagna, dell’economia sociale di mercato Wilhem Röpke. Ciascuno naturalmente con il proprio taglio, il proprio spirito e la propria cultura. Ma l’obiettivo è il bene pubblico, mitigando il mercato attraverso lo Stato. Che siano questi i fondamenti dell’Occidente di cui si parla tanto? Attaccandoli brutalmente si compie un clamoroso autogoal proprio nel momento in cui si tratta di scegliere tra le liberaldemocrazie e i regimi illiberali che ci sono nel mondo.