Emigrare dovrebbe essere una libera scelta. Invece il fondamentale diritto di ogni essere umano di vivere a casa propria in pace e dignità è diventato il diritto non riconosciuto di questo tempo. Ce lo ha ricordato ieri papa Francesco nel suo toccante discorso per la 109esima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato dedicato al tema “Liberi di scegliere se migrare o restare”. Riflessione che riprende esplicitamente la campagna del 2017 della Cei “Liberi di partire, liberi di restare” che segnò l’avvio di decine di progetti in 131 Paesi del mondo. E che raccoglie al tempo stesso le tante sollecitazioni dei vescovi africani, preoccupati per le partenze dalle loro Terre. Le parole di Francesco non negano naturalmente il diritto di partire, anzi. Ma ricordano che le cause delle migrazioni forzate sono conflitti, disastri naturali, persecuzioni, guerre, mutamenti climatici e miseria, insomma la «devastazione della casa comune». O la guerra mondiale a pezzi. Su questo occorre agire.
La riflessione indica per la prima volta un orizzonte temporale alla comunità internazionale per frenare questi flussi intervenendo sulle cause. Francesco chiede uno sforzo congiunto per il Giubileo del 2025 per assicurare a tutti il diritto a non dover emigrare. Ognuno deve svolgere il proprio compito. I Paesi ricchi devono abbandonare il colonialismo economico, la razzia delle risorse altrui, la devastazione della casa comune. Ma sui governanti dei Paesi d’origine dei flussi cade la responsabilità di esercitare «la buona politica per tutti, soprattutto per i più vulnerabili». Non va commesso l’errore di strumentalizzare politicamente il messaggio: la riflessione sulla libertà di restare non è naturalmente una sterzata verso il sovranismo, così come non è “di sinistra” la parte del discorso che chiede di continuare ad accogliere i migranti riconoscendo nelle sorelle e nei fratelli in difficoltà Cristo stesso che bussa alla nostra porta. È il messaggio evangelico, e per attuarlo la Chiesa usa un doppio sguardo, capace di sorvolare le frontiere e al tempo stesso di non perdere di vista la realtà locale. E ascolta il grido di chi è costretto a partire mentre vorrebbe restare per aiutare il proprio Paese, la propria famiglia a crescere fermando esodi spesso mortali lungo le rotte gestite dai trafficanti che finanziano anche il terrorismo. Esodi che, lo ripetiamo, non sono in alcun modo invasioni dell’Italia o dell’Occidente, perché il peso maggiore ricade sui Paesi limitrofi. E perché il diritto di emigrare sia davvero garantito, Francesco domanda uno sforzo supplementare di informazione per evitare che tanti uomini, donne e bambini vengano illusi da trafficanti senza scrupoli. Non è possibile che solo la quota di umanità più abbiente possa muoversi liberamente né che la risposta dei Paesi ricchi, anche in Europa, alle cause dei flussi migratori sia l’innalzamento di muri, contro i quali manifesteranno domani Caritas italiana, Acli e gli altri organizzatori del Festival Sabir a Trieste. Lo sforzo sembra immane. Solo nella Ue i recenti attacchi di Spagna e Francia al governo italiano sulla gestione del fenomeno migratorio sono il termometro della febbre che provoca la questione. Vero, noi italiani siamo storicamente più bravi nell’emergenza che nell’accoglienza. Ma non si può non tenere presente che gli accordi del famigerato memorandum libico furono votati nel 2017 all’unanimità dagli esecutivi Ue. E nemmeno dimenticare che Madrid ha elevato barriere spesso mortali nelle enclaves africane di Ceuta e Melilla. O che a Oulx e a Ventimiglia i gendarmi francesi hanno spesso violato le norme internazionali di tutela dei più vulnerabili respingendo minori e donne in gravidanza. In Italia, ad esempio, preoccupa in generale la pervicacia con cui si considera il fenomeno migratorio solo come emergenza e non come opportunità da cogliere cominciando a riformare l’arcaica legge sull’immigrazione del 2001. E per aiutare sinceramente lo sviluppo e la giustizia dei popoli – l’altro nome della pace, come diceva san Paolo VI nella Populorum progressio – si inizi ad aumentare la quota di bilancio statale da destinare alla cooperazione, fino ad arrivare allo 0,7%. Sarebbero due buone politiche per il Giubileo.