martedì 23 maggio 2023
Le opere nei musei italiani rientrano nella categoria del pubblico dominio e sono libere da diritti, ma non per lo Stato. E le richieste di pagamento mettono a rischio anche la ricerca
Il diritto all'immagine nell'arte e i rischi di una censura culturale
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Nella stagione dei diritti se n’è aggiunto un altro, che per la prima volta trasla quelli della persona all’opera d’arte. È uno dei contenuti più controversi della sentenza pronunciata nei giorni scorsi dal Tribunale di Firenze in merito a una causa, avviata tre anni fa, che vedeva coinvolti la Galleria dell’Accademia e l’editore Condé Nast. In sintesi, la copertina di luglio/ agosto 2020 di GQ Italia grazie alla stampa lenticolare (quella in cui la figura cambia inclinando il supporto) presentava in transizione l’immagine del David di Michelangelo e quella, ricalcata sulla scultura, del modello Pietro Boselli. Ministero della Cultura e Galleria dell’Accademia avevano contestato la riproduzione non autorizzata, indecorosa e a scopo di lucro della scultura. Il Tribunale ha dato ragione allo Stato, riconoscendo il dolo da parte dell’editore nell’uso dell’immagine perché «l’autorizzazione era già stata negata» dalla direzione in quanto la copertina «alterava l’immagine del bene culturale».

Non è vero che, come è stato detto, la sentenza impedirà l’uso dell’immagine del David senza pagarne i diritti: quella era già materia di una sentenza del 2017. Qui invece per la prima volta si afferma, in una pronuncia di merito, l’esistenza del “diritto all’immagine” dei beni culturali. Sostiene infatti il giudice Massimo Donnarumma che «l’immagine dei beni culturali è espressione dell’identità culturale della Nazione e della sua memoria storica da tutelare ai sensi dell’art. 9 della Costituzione», operando in analogia al diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2 della Carta. E dunque deve essere tutelata l’identità collettiva «dei cittadini che si riconoscono come appartenenti alla medesima Nazione anche in virtù del patrimonio artistico e culturale ». Quello che forse sfugge di questa sentenza è che non coinvolge semplicemente l’elemento commerciale come in precedenza, ma estende la giurisdizione dalla tutela del bene materiale alla sua immagine e a qualcosa di ancora più impalpabile: l’aura. Si passa cioè dal manufatto alla sua sedimentazione e stratificazione sociale e culturale, che ne è un prodotto o un derivato e non coincide con l’opera stessa.

La legislazione italiana riconosce al patrimonio culturale un valore “pubblico” anche quando non è di diretta competenza dello Stato. Per effettuare un intervento su un bene mobile o immobile storico vincolato, ossia quelli più vecchi di 50 anni previa verifica dell’interesse culturale, un privato è tenuto a coinvolgere la soprintendenza. Parrebbe curioso quindi che la tutela della dignità del bene come dimensione identitaria – che è tale al di là di chi ne possiede il titolo – valesse solo per quanto è amministrato dallo Stato. Dovremmo quindi aspettarci che le soprintendenze vengano chiamate a esprimersi sul decoro del riuso del bene culturale di proprietà privata. Vogliamo portare il ragionamento della sentenza all’estremo? Secondo il giudice «risulta gravemente lesa l’immagine di un’opera di assoluto pregio artistico, che è assurta a simbolo non solo delle temperie rinascimentali, ma anche del nostro intero patrimonio culturale e in definitiva del genio italico». A parte il brivido che suscita il “genio italico” (è pur vero che l’italiano giudiziario, che gronda cattiva letteratura e psicologia da tabloid, è un genere letterario a sé), se prendiamo davvero per buona la sovrapposizione tra cultura prodotta nella penisola italiana e nazione italiana, dovremmo allora aspettarci di avere giurisdizione anche su un uso consono dell’immagine della Gioconda. O della Pietà di Michelangelo. Che sta in Vaticano, ossia uno stato estero per quanto in terra “italica”.

La sentenza fiorentina ammanta di moralismo un problema di gusto. Una dimensione che aggiunge al sapore nazionalista dell’argomentazione un retrogusto censorio: seguendo di nuovo la logica, si trasformano musei e soprintendenze in una sorta di buoncostume del patrimonio. Non solo. La valutazione del decoro a questo punto dovrebbe estendersi a tutti i casi in cui l’immagine di un’opera viene riutilizzata all’interno di ogni processo creativo. Perché l’arte, dopo tutto, è prodotta a scopo di lucro. Questa sentenza sembra non sapere quale siano la storia e il destino dei grandi capolavori: l’essere triturati, traditi, disseminati. Anche con tono dissacrante: può non piacere, ma è lecito. E a volte persino necessario.

Tutto dipende da un cortocircuito interno alla legislazione e alla giurisprudenza italiana tra tutela e diritto d’autore. Le opere custodite nei musei italiani rientrano ampiamente nella categoria del pubblico dominio e quindi sono in teoria libere da diritti. Il Codice dei Beni Culturali norma l’uso del patrimonio, stabilendo un principio privatistico per la tutela delle opere dell’ingegno (che decade dopo 70 anni dalla morte dell’autore) e riconoscendo ai beni culturali invece un interesse collettivo richiedendo così un corrispettivo per l’uso. Tale approccio confligge palesemente con l’orientamento Ue: con la Direttiva 790/2019, il Parlamento europeo ha liquidato la questione escludendo i diritti di privativa ed esprimendosi in favore del pubblico dominio. Nel recepire la Direttiva l’Italia però ha ribadito la linea protezionista.

Ergo, si paga. Ma il problema è che ora a pagare sarà anche chi usa le immagini per ricerca, nonostante il Codice preveda la gratuità per la pubblicazione per motivi di studio. Con il Decreto Ministeriale n. 161 dell’11 aprile 2023 sono state emanate le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”, con un allegato che determina un tariffario minimo e coefficienti per la riproduzione di beni culturali statali. È previsto che le tariffe non si limitino a coprire i costi vivi ma siano superiori per generare ricavi. Insomma, è lo Stato a fare cassa sul patrimonio. Le tabelle prendono in esame tutto ciò che abbia almeno la parvenza di avere fini di lucro, editoria scolastica compresa. Se l’elenco termina con le costose riproduzioni ad altissima definizione, il primo gradino è costituito dalle riviste scientifiche, che avendo un prezzo rientrano negli “scopi commerciali” nonostante con ogni evidenza il loro obiettivo principale non sia il profitto.

Il costo, letterale, di tutto questo ricade sulla ricerca. Per quanto il ministro Sangiuliano abbia dato un’interpretazione propensa alla liberalizzazione degli usi per motivi di studio, la tabella resta al tempo stesso molto confusa e molto chiara. Il mondo accademico sta contestando con forza il tariffario. Le pubblicazioni su riviste scientifiche riconosciute sono essenziali ai fini curriculari e costituiscono un metro di valutazione delle università su scala internazionale. I ricercatori e i docenti universitari non ricevono fondi per sostenere queste spese. Per non parlare del fatto che proprio lo studio di un’opera è la prima valorizzazione. Il Ministero dovrebbe incentivare le pubblicazioni e supportare gli studiosi che dedicano la vita al patrimonio con lo stesso criterio con cui si concede a insegnanti, studenti e ricercatori di entrare gratis nei musei.

L’Italia va in controtendenza rispetto a quanto accade nel mondo. Sono sempre di più le istituzioni culturali che hanno adottato una politica open access, ossia di accesso incondizionato e riuso – anche creativo – del patrimonio artistico e archivistico. E sono ormai molti gli studi che attestano i benefici di queste politiche, dalla democratizzazione del patrimonio alla riduzione dei costi di gestione, alla creazione di nuovi modelli di business basati sulla digital economy e la creator economy. Il Rijksmuseum di Amsterdam rende disponibili anche per uso commerciale le opere di pubblico dominio. Lo stesso fanno gran parte dei musei americani. Tra le poche realtà italiane ad avere pubblicato open access parte della collezione c’è il Museo Egizio di Torino, con 2mila immagini. Il 18 maggio scorso, in occasione della Giornata Internazionale dei Musei, Wikimedia Italia ha rinnovato l’invito a tutti gli istituti culturali italiani «a condividere la conoscenza senza limiti» e «diventare protagonisti del libero accesso al patrimonio culturale italiano».

In ogni caso, le immagini del David non spariranno dai souvenir nonostante possano apparire lesive della dignità dell’opera. E non perché ci saranno retate tra le bancarelle di mezza Italia, ma semplicemente perché basterà pagare. Uomini vitruviani e Madonne raffaellesche sorrideranno dalle tazze e dai magneti dei giftshop museali. Il vero argine al cattivo gusto non sta in una fantomatica moralità di Stato e in una tanto impossibile quanto maldestra strategia poliziesca ma in una ricerca che sappia trasformarsi in educazione e spirito di cittadinanza. Che è poi il vero compito dei musei.

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