«Questo aereo è uno di quelli che lancia le bombe?». È una mattina di giugno quando Heidi De Pauw, direttrice della Ong belga Child Focus, si sente rivolgere questa domanda da un bambino di 6 anni. Ha una voce tenera che parla la sua lingua, il fiammingo (variante dell’olandese) che le ricorda cosa significa un’infanzia passata sotto il Daesh, il sedicente Stato Islamico. Sorvolano i cieli del nord della penisola arabica diretti verso casa, in Belgio, sei figli di foreign fighters deceduti, via dall’inferno in cui li avevano portati i loro genitori. I ragazzini hanno un’età compresa tra i 6 e 18 anni, sono tutti nati in Belgio, anche se per loro il deserto intorno al campo di detenzione di Al-Hol, nella Siria orientale, è stata la casa più recente. In realtà non sono tutti orfani. Dei sei bambini rimpatriati due sono stati condotti in Siria da un solo genitore, convinto di fare il jihad, la guerra santa. Quattro invece sono orfani e sono stati affidati ai loro nonni. I 6 sono ora seguiti da assistenti sociali e psicologici, frequenteranno un programma di recupero degli anni scolastici persi e, se risulteranno ancora fortemente indottrinati, seguiranno un percorso di deradicalizzazione. «Non credo che ce ne sarà bisogno – scandisce la direttrice di Child Focus – gli adolescenti maschi (ci sono due quattordicenni) sono un po’ bulli ma in linea con la loro età. Sarebbe paradossale se il nostro governo che ha speso milioni di euro in programmi di de-radicalizzazione si sentisse minacciato da 6 bambini». La direttrice di Child Focus parla delle condizioni generali dei minori nei tre campi curdi, da lei visitati, dove sono finite le vedove e gli orfani del Daesh. «I bambini hanno vissuto un’infanzia senza libri né televisione – ricorda – senza scuola né modelli educativi ».
Dopo il 2017, con la caduta del califfato, alla violenza della guerra si è sostituito un clima di terrore psicologico, soprattutto nel campo di Al-Hol, noto per avere il numero più alto di donne rimaste fedelissime al Califfato. «Sono violente – ammonisce De Pauw – tirano sassi ai figli delle donne che non indossano più il niqab, il velo integrale. Appiccano incendi, aggrediscono verbalmente, sono convinte che il Daesh tornerà». Ma la maggior parte delle detenute con passaporti europei, incluse le donne belghe, si sono pentite di aver seguito i loro mariti in un’impresa all’insegna della giustizia islamica che poi si è rivelata di una violenza inaudita, un incubo senza fine, hanno ammesso ai media.
Se avranno una seconda possibilità in Belgio si scoprirà presto. Gli Stati Uniti, ansiosi di andare via dalla Siria, hanno invitato le cancellerie europee a riprendersi i loro cittadini jihadisti per liberare i campi detentivi degli alleati curdi. Heidi de Pauw è in costante contatto con i parenti di 45 bambini belgi, ancora in Siria, che accolgono gli annunci del presidente americano, Donald Trump, come possibili momenti di svolta per sbloccare i destini sospesi dei loro cari. Ma sul tema la politica belga è molto divisa, l’opinione pubblica, dopo gli attentati a Bruxelles del 2015, è ovviamente contraria ai rimpatri. «Ricevo minacce verbali e sui social – dice Heidi de Pauw, accennando un sorriso nervoso –. Mi augurano di rimanere uccisa nel prossimo attentato terroristico. Ricevo mail in cui viene suggerito di affogare i bambini del Daesh come dei gattini».
Questi minori che alcuni vedono come potenziali kamikaze, Heidi De Pauw li ha visti giocare e ammalarsi nei campi detentivi in Siria. Li ha visti sorridere e in- tristirsi. Li ha spiati, sorpresa, mentre si consolavano a vicenda divorati da una rassegnazione che non dovrebbe mai lambire il mondo dell’infanzia. «Ho mantenuto una distanza professionale – tiene a specificare De Pauw, madre di una ragazza di 19 anni – ma mi sono affezionata a loro, senza mai illuderli che saremmo riusciti a riportarli a casa». Poi quel giorno finalmente è arrivato: i piccoli prigionieri sono stati consegnati, dai curdi agli uomini del ministero degli Esteri del Belgio, vicino alla frontiera turca. Lei, Heidi, era lì, l’unico volto conosciuto per quei bambini arrivati al confine con una vita da dimenticare, pochi bagagli e un peso interiore ben più pesante. E la battaglia di De Pauw continua per il rimpatrio degli altri 45 minori belgi. F atiha è la portavoce dei nonni disperati del Belgio, ha otto membri della sua famiglia nel campo di Al-Hol: 6 nipoti, una figlia e una nuora. La visitiamo nella sua casa a Ranst, 70 chilometri Nord Est da Bruxelles. Fa vedere le foto dei piccoli sorridenti, alcuni sono biondi altri hanno la carnagione olivastra. In alcune foto sono felici, in altre ammalati: con fasciature e visi stremati. Fatiha, nata 57 anni ad Antwerp, da genitori marocchini, prima di avere due figli adescati, a vent’anni, dalla organizzazione jihadista 'Sharia4belgium', lavorava nell’industria alimentare, per poi mettersi in proprio come pasticcera. Nel 2012 Noureddine e Bouchra, il suo primogenito e la sua secondogenita decidono di partire per la Siria con i loro rispettivi coniugi. Un’avventura militaresca che per Noureddine e suo genero finisce pochi mesi dopo il loro arrivo.
È stato uno choc per me sapere che erano in Siria – racconta Fatiha seduta sul suo divano con il volto colmo di tristezza – ma è stato ancora più terribile sapere della morte di Noureddine da mia figlia ». Le lacrime scendono compostamente sugli zigomi alti di questa donna piena di rimorsi seppure senza colpe evidenti. Cinque anni fa, il figlio era seduto in quel salone ben arredato costato lavoro e sacrifici, segno concreto di un’integrazione avvenuta nel rispetto delle regole. Ora Nou« reddine invece è lì, immobile, compresso in una foto nel computer di Fatiha. È spettinato, con le labbra violacee e una piccola ferita pulita all’altezza cuore. In mancanza di un vero sepolcro, la madre piange con il computer aperto sul tavolo della sala da pranzo, il monitor acceso con l’immagine di Noureddine da morto riflette l’assurdità di un lutto solo digitale.
Il figlio di Fatiha ha combattuto la sua ultima battaglia contro l’esercito di Bashar Al-Assad nelle fila di Jabat al Nusra, nell’estate del 2013, nella città orientale della Siria Deir ez Zor. Sua moglie Tatiana, una ragazza fiamminga, convertita all’Islam, era incinta e con un bambino quando è rimasta vedova. Poco tempo dopo anche Bouchra, la sorella di Noureddine è diventa vedova, incinta pure lei, e con un bambino. Nel 2014 le due ragazze decidono di tornare in Belgio per partorire. Il viaggio procede senza intoppi, una volta rientrate nelle Fiandre la polizia le convoca a cadenza settimanale, poi gli incontri si fanno meno assidui. Non vengono più cercate.
Di fatto sono donne libere ma non integrate, al contrario, sentono lo stigma sociale, la diversità, l’emarginazione. Decidono di ripartire per la Siria senza dire nulla a Fatiha che, scoperta l’assenza delle donne e dei loro quattro figli, chiama immediatamente la polizia per farle arrestare. «Non le hanno fermate – dice Fatiha delusa e arrabbiata – . Ero così ferita dalla loro decisione che volevo cancellarle dalla mia vita. Ma poi ho cambiato idea, ho pensato che i miei nipoti non dovevano pagare per gli errori fatti dai loro genitori». In Siria, a Raqqa, Bouchra e Tatiana vengono fatte risposare, restano di nuovo incinte e di nuovo vedove. Così i nipoti di Fatiha sono diventati 6. La figlia e la nuora hanno lanciato appelli per le condizioni di salute dei loro figli, sono pentite e pronte a scontare la loro pena di 5 anni emessa dal tribunale di Antwerp. Fatiha, a casa ha tutto pronto per il rientro dei nipoti di età compresa tra uno e 7 anni: lettini, giocattoli, zaini appesi a ganci personalizzati con i loro rispettivi nomi. «Non sono riuscita a salvare mio figlio – dice Fatiha accennando un pensiero positivo – ma spero di riuscire a salvare i miei nipoti». Forse, presto, verranno a vivere in Belgio, un paese nei cui cieli volano aeroplani che non sganciano bombe.