La siccità provocata dai cambiamenti climatici colpisce in particolare le popolazioni dei paesi più poveri, privi delle risorse per pianificare strategie di adattamento - Ansa
I cambiamenti climatici stanno facendo sentire i propri effetti sull’umanità, colpendo gli assi portanti della sopravvivenza e dell’organizzazione sociale. Ma responsabilità e conseguenze non seguono un andamento coerente. Al contrario si muovono in un rapporto inversamente proporzionale, nel senso che chi ha inquinato di meno subisce i danni maggiori. È quanto mette in evidenza il Climate Inequality Report 2023 appena pubblicato dal gruppo di lavoro World Inequality Lab. I cambiamenti climatici, è risaputo, sono dovuti all’accumulo in atmosfera di anidride carbonica che ha cominciato a subire un’accelerazione durante la rivoluzione industriale per giungere ai livelli stratosferici dei nostri giorni.
Si stima che dal 1850 ad oggi siano state emesse 2.453 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, ma l’apporto dei diversi continenti è estremamente differenziato. Quello che ha inquinato di più è stato il Nord America, responsabile del 27% di tutte le emissioni storiche. Seguono Europa (22%), Cina (11%), Russia e Asia meridionale (9% ciascuno), America Latina (6%). Quello che ha inquinato di meno è l’Africa, responsabile appena del 3,8% di tutta l’anidride carbonica emessa negli ultimi due secoli. Anche i dati sulle emissioni correnti ci dicono che l’Africa ha meno colpa di tutti. Nel 2017, ultima elaborazione disponibile, in cima alla lista troviamo la Cina col 23% delle emissioni, seguita da Usa (19%) e Unione Europea (13%). L’Africa arriva ultima col 4%, come testimonia il fatto che metà della sua popolazione non dispone ancora di nessun tipo di energia elettrica. Ma se veniamo ai danni, l’Africa è il continente che sta pagando di più. Su tutti i piani: agricolo, sanitario, idrico, sociale.
Sul piano agricolo i cambiamenti climatici stanno provocando un effetto paradosso perché nella parte più settentrionale del globo si è assistito a un aumento della produttività, come testimoniano Canada e Russia. Nelle zone subtropicali, invece, l’agricoltura risulta fortemente danneggiata, in alcune aree per eccesso di piogge, in altre per loro assenza. Nel 2022 il Pakistan venne colpito da una vasta inondazione che provocò quasi 2mila morti e perdite per oltre 15 miliardi di dollari, di cui cinque attribuibili al settore agricolo. In Africa, invece, nella regione del Sahel il problema è la siccità. Paesi come Mali, Niger Sudan, Somalia, negli ultimi anni hanno registrato cali di produttività agricola fino al 40% a causa della mancanza d’acqua. La riduzione dei raccolti agricoli ha come effetto immediato la fame, perché in Africa, come in molti altri paesi del Sud del mondo, una percentuale importante di famiglie pratica ancora l’agricoltura di sussistenza, ossia vive direttamente di ciò che produce. E quando non c’è più da mangiare e da bere, non rimane che andarsene.
Nel 2022 in Somalia, a causa della siccità, più di un milione di persone si è spostato nel tentativo di sopravvivere. È il dramma degli sfollamenti per cause naturali destinato a peggiorare sempre di più. La Banca Mondiale calcola che da qui al 2050, oltre 200 milioni di persone potrebbero trovarsi costrette a migrare verso le città o i paesi confinanti per sfuggire ai disastri provocati dai cambiamenti climatici.
Oltre che per fame, sete o annegamento, i cambiamenti climatici possono uccidere anche per il troppo caldo, perché le ondate di calore aggravano la condizione di chi è già fragile per altri motivi. Da questo punto di vista anche i paesi ricchi sono particolarmente esposti perché hanno una percentuale importante di anziani. Ma l’età non è il solo elemento di fragilità che può trasformare l’eccesso di caldo in un pericolo mortale. Anche i giovani possono essere a rischio di morte se il loro stato nutrizionale è carente e se soffrono di malattie ricorrenti. Per questo, pur essendo il continente con la più alta quota di giovani, l’Africa è ricompresa fra le aree del mondo a elevato rischio di mortalità a causa delle ondate di calore. Del resto vari studi stanno dimostrando che i cambiamenti climatici si ripercuotono anche sui cicli biologici degli insetti, compresi quelli che trasmettono malattie. Ad esempio si prevede una recrudescenza di dengue, una malattia virale trasmessa dalla zanzara aedes, e di malaria, una parassitosi trasmessa dalla zanzara anofele, nelle zone tropicali e sub tropicali in cui queste malattie sono già presenti.
I cambiamenti climatici impongono a tutti i paesi del mondo una doppia sfida: un cambio di impostazione energetica per rompere il legame con i combustibili fossili e l’adozione di misure utili a proteggersi dai danni provocati dai cambiamenti climatici ormai in atto. Ma tutto ciò richiede un grande sforzo finanziario e i paesi che più avrebbero bisogno di difendersi sono quelli meno capaci di farlo a causa della propria povertà. Volendosi soffermare sulla sola Africa, l’insieme dei 53 paesi che la compongono hanno dichiarato un fabbisogno di 2.800 miliardi di dollari per il decennio 2020-2030, da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. Ma i governi africani hanno ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che entra in gioco la solidarietà internazionale, che però fa acqua da tutte le parti. Nonostante l’impegno dei paesi ricchi di destinare a quelli più poveri 100 miliardi di dollari all’anno specificamente per le spese connesse ai cambiamenti climatici, nel 2020 la somma raccolta si è fermata a 83 miliardi di dollari. Ogni sorta di difficoltà è invocata dai paesi ricchi per giustificare le proprie inadempienze, ma il rapporto di World Inequality Lab indica delle vie per incrementare il fondo di sostegno alle spese climatiche. In particolare tre.
La prima proposta riguarda l’introduzione di un’imposta sui viaggi aerei e marittimi. È stato calcolato che se la proposta fosse adottata da tutti i 195 paesi firmatari dell’Accordo di Parigi si potrebbe generare un introito variabile fra 132 e 392 miliardi di dollari all’anno. La seconda proposta riguarda la tassazione delle multinazionali. Un recente accordo promosso dall’Ocse prevede delle modalità per impedire alle multinazionali di sottrarsi alla tassazione approfittando del fatto che agiscono a livello mondiale. La finalità perseguita è di costringere le multinazionali a pagare almeno il 15% su tutti i profitti conseguiti a livello mondiale tramite una serie di misure fiscali che dovrebbero essere applicate prima di tutto nei paesi in cui le multinazionali operano tramite le proprie filiali. Ma qualora questo livello di tassazione non dovesse essere attivato o per qualche altra ragione dovesse dimostrarsi insufficiente, il sistema cerca di recuperare le perdite tramite un meccanismo che permette ai paesi in cui risiedono le capogruppo di tassare anche i profitti realizzati all’estero. Il che è buono, ma è meno buono che i soldi vengano intascati dagli stati che hanno la fortuna di ospitare le capogruppo, solitamente i più ricchi.
Tuttavia l’ingiustizia potrebbe essere sanata se quei denari fossero devoluti a fondi creati per fornire assistenza ai paesi del Sud del mondo, in primis quello contro i cambiamenti climatici. La terza proposta è l’invito a tassare seriamente i redditi e i patrimoni dei più ricchi. Il che permetterebbe non solo di raccogliere fondi da destinare alla lotta contro i cambiamenti climatici, ma di ridurre direttamente le emissioni di anidride carbonica dal momento che il 50% di tutta l’anidride carbonica emessa annualmente a livello mondiale è dovuta ai consumi del 10% più ricco della popolazione mondiale. Una classe che travalica i confini, considerato che i miliardari si trovano non solo in Nord America, Europa e Giappone, ma anche Cina, India e America Latina. Dunque la responsabilità di un’equa tassazione ricade su tutti i paesi del mondo, ma prima di tutto su quelli a reddito pro capite alto.