Haiti, Sudan e l'impotenza Onu
venerdì 4 ottobre 2024

L'ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite ha offerto ancora una volta alla comunità internazionale l’occasione (o l’alibi) di perdere un’opportunità. Nel vortice delle centinaia di leader che si sono alternati sulla tribuna di Palazzo di Vetro, nessuno ha prestato troppa attenzione all’ennesimo grido di aiuto lanciato dal rappresentante haitiano. Eppure Edgar Leblanc, presidente del Consiglio di transizione – l’organismo incaricato di gettare le basi per riedificare un sistema istituzionale polverizzato da quasi un decennio di anarchia – non ha impiegato mezzi termini per descrivere la gravità della crisi. «Il Paese è dilaniato dalla criminalità», ha detto. Non si tratta di una metafora. Haiti è smembrata in brandelli di territorio: in ciascuno, l’unica legge è quella della banda che se l’è accaparrato. La Repubblica delle gang, la chiamano. In realtà sembra più una confederazione sotto l’egida del “boss dei boss”, Jimmy Chérizier alias Barbecue. Alla minaccia di duecento gruppi molto armati – grazie ai proventi degli sponsor politici locali, del racket e degli accordi con i “signori della droga latinoamericani” – il mondo ha risposto, con quasi due anni di ritardo rispetto alla richiesta, con l’invio di una missione multinazionale guidata dal Kenya che, al momento, consiste in meno di cinquecento poliziotti barricati nella base Usa per mancanza di forze e mezzi. Certo, proprio alle Nazioni Unite, il presidente kenyano William Rutto ha promesso che si arriverà a un totale di 2.500 agenti entro il prossimo gennaio. Cioè – al netto di probabili inghippi – fra altri tre mesi. Nel frattempo, la violenza ha superato i già elevatissimi standard. Ogni giorno, in media, vengono assassinate venti persone. Appena l'altro ieri una banda ha aperto il fuoco con fucili automatici contro la folla a Port Sondé. Sul terreno sono rimaste 70 vittime tra cui una decina di donne e tre bambini. Gli ultimi dati dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani hanno registrato 3.661 omicidi solo nei primi sei mesi dell’anno: in tutto il 2023 erano stati poco più di 4.700. Alle vittime si sommano i feriti, gli orfani, i seicentomila sfollati interni ammassati in ogni edificio disponibile di Port-au-Prince e nelle piazze, la metà della popolazione ridotta al livello di fame acuta, secondo gli ultimi dati del Programma alimentare mondiale (Pam). E i numeri, pur allarmanti, descrivono solo una piccola parte di una realtà raccapricciante. Con il moltiplicarsi dei conflitti per il mappamondo e il rischio di un’imminente escalation in Medio Oriente, però, l’agenda globale è satura di emergenze. E agli occhi dei Grandi quella haitiana resta sempre una “crisi minore”. Una delle tante. Inclusa la guerra civile sudanese, la più grave catastrofe umanitaria del pianeta: oltre 10 milioni di sfollati, 20mila morti accertati, due milioni a rischio malnutrizione. «Haiti ha un basso potenziale di destabilizzare la regione», si sente ripetere nelle cancellerie e nei vertici diplomatici. Anche se fosse vero – e non è detto che lo sia date le implicazioni in termini di avanzata della criminalità trasnazionale e di impatto sui flussi migratori –, la questione è un’altra. Il nodo haitiano è intricato. Ma non quanto – in termini di complessità geopolitica – lo scontro pluridecennale israelo-palestinese o il conflitto russo-ucraino. Scioglierlo, dunque, sarebbe possibile con un investimento di risorse umane e materiali adeguato ma sempre minimo rispetto alle altre urgenze. E a beneficiarne non sarebbe solo l’isola caraibica. Un buon risultato darebbe alla sempre più sfilacciata comunità internazionale una prova di credibilità tangibile. Sarebbe la dimostrazione che sa trovare ancora una voce capace di sovrastare il rumore di fondo degli interessi di parte. Lo stesso si potrebbe dire del Sudan dove pur è maggiore la connessione delle parti in conflitto – le Saf del presidente Abdel Fattah al-Burhan e le Rsf del vice Mohamed Hamdan Dagalo – con potenze internazionali che puntano al controllo dei traffici navali nel Mar Rosso, delle acque del bacino del Nilo, delle miniere di oro e dei giacimenti di petrolio.
L’appello di Leblanc a Palazzo di Vetro di trasformare il contingente multinazionale in una missione Onu a tutti gli effetti, invece, è caduto nel vuoto. Il suo intervento è rimbalzato sui media e sui social per tutt’altra ragione: l’acqua versata addosso mentre beveva dalla caraffa. Al Sudan, comunque, è andata peggio: non ha avuto nemmeno l’onore di un “meme”. Nel buio informativo e nell’inerzia politica, ad Haiti, in Sudan e in altri 180 buchi neri del mondo, si continua a combattere.

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