Il virus della violenza si combatte anche rigenerando la fiducia Un senso di insicurezza si insinua nelle pieghe della nostra vita quotidiana. La paura di prendere la metropolitana, la rinuncia a partecipare a un evento pubblico, la tentazione di chiudersi in casa immaginando di poter lasciare il mondo – con tutto il suo carico di violenza – là fuori.
Ma c’è poco da fare: i virus, lo sappiamo, penetrano invisibilmente nella nostra mente e nei nostri cuori. Ce li troviamo addosso, ne sentiamo il peso. È questa la vera posta in gioco della sequenza infinita di attentati terroristici che colpiscono i momenti e i luoghi più disparati della nostra vita insieme: cambiarci dal di dentro, aumentare la diffidenza nei confronti di chi incontriamo per strada; o, peggio sviluppare sentimenti di odio e di rancore nei confronti di chi viene da una terra lontana o professa una religione differente. È questa infezione che i terroristi vogliono trasmetterci.
Ed è questo il morbo che dobbiamo impegnarci a combattere. Siamo dunque di fronte a una sfida nuova: in epoche passate, la vita poteva essere messa a repentaglio dall’attacco repentino di un gruppo di briganti che saccheggiavano e distruggevano intere comunità. Con la formazione degli Stati nazionali avevamo pensato di essere riusciti a costruire uno spazio politico dove la violenza poteva essere controllata, creando così condizioni di una vita più sicura per tutti. E oggi invece ci tocca scoprire che la malvagità trova sempre vie nuove per riemergere, costringendoci – come individui e come società – a confrontarci di nuovo col mistero dell’animo umano.
La forma del terrore che stiamo conoscendo in questi anni è plasmata dalla tecnologia di cui oggi disponiamo. Nella società polverizzata nella quale viviamo è la combinazione pericolosa tra la comunicazione che circola liberamente nella rete e la possibilità di viaggiare e spostarsi per tutti gli angoli del mondo a creare le condizioni di quel nuovo tipo di terrorismo molecolare – impalpabile e imprevedibile – di cui quasi settimanalmente ormai abbiamo notizia. Come non si stanca di ripetere papa Francesco, la causa profonda di quanto succede non va cercata tanto nelle religioni, ma nelle odiose strumentalizzazioni che di esse vengono fatte.
Un virus dunque. Come quelli che colpiscono il nostro corpo debilitandolo senza che ce ne accorgiamo; o che si infilano nei nostri personal computer bloccandoli e rendendoli inutilizzabili. Siamo sorpresi, frastornati. Qualcuno pensa che edificando dei muri sia possibile separare il male dal bene. Ma siamo sicuri che sia questo il modo migliore per debellare il virus che è fuori ma ormai anche dentro di noi? La questione di fondo è che siamo chiamati da quest’ora della storia a ridiscutere nuovamente i termini dello stare insieme: sapendo che i virus si combattono con pazienza e metodicità, lavorando su tutti i fattori che ci proteggono dai loro attacchi ma che soprattutto li prevengono. Il problema è capire come superare questa stagione limitando il numero di vittime ed evitando che l’infezione si propaghi fino a cambiare la forma stessa della nostra società.
Per questo, nel chiedere che le forze dell’ordine e la politica facciano nel modo migliore il loro mestiere – domandando a tutti la massima responsabilità nell’uso delle parole e delle immagini – è altresì necessario che noi, come singoli cittadini, come gruppi e associazioni della società civile, come imprese e come istituzioni, non ci blocchiamo davanti al male. Il virus si combatte potenziando gli anticorpi. Che nel caso in questione sono rappresentati dalla responsabilità che ciascuno ha di non cedere alla paura e all’odio. E, in positivo, di dare il proprio contributo per rigenerare la fiducia nelle relazioni di ogni giorno, nel mantenere aperti i canali del dialogo e nel combattere le dinamiche di esclusione dalle quali la violenza nichilista trae vigore. Come sempre nella storia, anche oggi in gioco c’è il confronto tra la vita la morte.
Contrastare quel sentimento di paura che gli attentatori vogliono moltiplicare significa rimanere saldi nel pensare che il terrorismo sarà vinto perché, come tutte le forme del male, distrugge ma non costruisce. Anche se, come la storia insegna, l’attrazione della morte continua a esercitare il suo fascino, non smettiamo di credere che sarà la vita ad avere l’ultima parola.