Domani comincia il Ramadan, il mese sacro dell’islam. È una ricorrenza che tocca anche noi, e sempre di più. Secondo le stime più recenti, in Italia i musulmani sono quasi 1,5 milioni, il 28% del totale degli immigrati. Sono una minoranza quindi all’interno di una popolazione immigrata prevalentemente cristiana (57,5%), ma comunque una minoranza che ha il diritto di professare in pace, e anche pubblicamente, la propria fede. Senza contare il fatto che c’è, e si consolida, una piccola minoranza di italiani di religione musulmana. Non è di certo un buon momento per parlare dei diritti religiosi dei musulmani, dopo gli attentati in Sri Lanka che hanno fatto strage di cristiani, suscitando orrore e indignazione.
È più facile in questo clima coltivare sentimenti di rivalsa, pensando di far pagare anche ai musulmani d’Italia il conto dell’intolleranza degli estremisti che in altre parti del mondo uccidono in nome dell’islam. Eppure ancora una volta è importante sfuggire allo schema dello 'scontro di civiltà', consegnando tutti i musulmani al campo dei nemici del cristianesimo, delle altri fedi e dei valori democratici. È anzi proprio questo il momento per affermare che una vera democrazia tutela i diritti umani delle minoranze, tra cui quello di culto è fondamentale, indipendentemente dalle colpe dei governi dei Paesi di provenienza o di gruppi di confratelli di fede. I diritti umani spettano alle persone in quanto tali, sono svincolati per definizione da clausole di reciprocità impersonale o da chiamate in correo su basi collettive.
Ebbene oggi, nel 2019, a trent’anni e più dall’ingresso dell’Italia nel novero dei Paesi d’immigrazione, in molte città i musulmani non possono ancora disporre di un luogo di culto legale e dignitoso, con la conseguenza che gran parte dei momenti di preghiera si tengono in luoghi inidonei, semi-clandestini, provvisori, e quindi anche più difficili da monitorare. Si stima che siano circa 900 in Italia le sale di preghiera musulmane, solo in parte legalmente autorizzate. Secondo l’Ucoii, una delle associazioni che cercano di organizzare una presenza islamica molto frammentata, non sono più di venti i grandi Comuni che hanno istituito aree cimiteriali riservate ai musulmani. Nel 2017, dopo lunghe e complesse trattative, il Governo italiano era riuscito a raggiungere un’intesa con le principali associazioni rappresentative dei musulmani del nostro Paese, avviando la costruzione di un «islam italiano», con guide religiose formate in Italia e impegnate a promuovere «la piena attuazione dei princìpi civili di convivenza, laicità dello Stato, legalità, parità dei diritti tra uomo e donna».
In luoghi come le carceri, dove avvengono anche processi di radicalizzazione religiosa, imam preparati e convinti fautori del dialogo interreligioso sarebbero – e in parte già sono – una risorsa preziosa. Su questa importante materia l’attuale maggioranza politica sembra però afasica. L’accordo di governo in materia prefigura una sorta di 'comma 22'. Promette la chiusura dei luoghi di culto irregolari, annuncia una legge-quadro sulle moschee, ma richiede anche il coinvolgimento delle comunità locali. Il che significa che se i Comuni negheranno l’assenso, i musulmani o altre minoranze rimarranno prive di luoghi di culto, e quindi di libertà religiosa. Nel frattempo, l’islam italiano continua la sua vita stentata e semi-sommersa, guidato da imam anche preparati e comunque pieni di buona volontà, ma che in due casi su tre non dispongono di una formazione teologica, come ha notato il recente volume Il Dio dei migranti (Il Mulino).
Le istituzioni pubbliche e molti italiani preferiscono mantenere una parvenza di chiusura che regolare le modalità di espressione di un’esigenza umana incomprimibile come quella di praticare insieme e pubblicamente la propria fede religiosa. Le politiche simboliche, soprattutto quelle della difesa e della chiusura 'a prescindere', ancora una volta impediscono di affrontare e risolvere i problemi reali. E congiurano per complicarli.
Sociologo, Università di Milano e Cnel