Un giorno, alla domanda «chi è per lei Giovanni Paolo II?», il suo portavoce Joaquin Navarro-Valls non rispose con una 'formula', ma con quella che oggi chiameremmo una narrazione. Raccontò infatti di quella volta che, convocato dal Papa per parlare di alcune questioni relative al suo incarico, era stato pregato dal Pontefice di attenderlo qualche minuto, mentre egli si raccoglieva in preghiera nella cappella privata.
«Anzi – gli disse – venga anche lei con me». Tuttavia, riferì Navarro, i pochi minuti si trasformarono in un’ora abbondante. «E io vedevo che di tanto in tanto il Papa estraeva da un cassetto dell’inginocchiatoio un foglietto e lo leggeva, ritornando quindi a immergersi nelle sue orazioni. Quando alla fine si rialzò – aggiunse il portavoce – fu quasi stupito di vedermi e mi disse 'Ah, ma lei è qui?!', come se si fosse 'dimenticato' della mia presenza. Questo è Giovanni Paolo II – concluse–. Soprattutto un uomo di preghiera, intimo del Signore, davanti al quale porta anche le necessità di tutti noi».
È noto infatti che quei 'pizzini' contenevano le intenzioni per le quali gli veniva richiesto di intercedere da chi si rivolgeva a lui con lettere o richieste di aiuto. Monsignor Stanilaw Dziwisz, il suo segretario personale, le riassumeva in poche righe e gliele faceva trovare in quel cassetto, cosicché Giovanni Paolo II potesse 'inoltrarle' direttamente a Dio. Così ci piace immaginarlo anche oggi, nel quindicesimo anniversario della sua morte, mentre il mondo è alle prese con la gravissima emergenza planetaria del Covid- 19. In ginocchio, proprio come nell’episodio raccontato da Navarro, a tu per tu con l’Altissimo, mentre prega per noi. «Affacciato alla finestra del cielo» – come disse il giorno dei suoi funerali l’allora cardinale Joseph Ratzinger, poi suo successore sulla Cattedra di Pietro – egli avrà sicuramente visto le sofferenze, il dolore, la morte che il virus sta seminando nei cinque continenti. E non è difficile immaginare che proprio a lui, alla sua potente preghiera di intercessione, si siano rivolti in molti con 'pizzini' spirituali che egli continua a 'prendere in mano' e 'inoltrare' al suo e nostro Signore con lo stesso fervore, anzi di più, di quando era quaggiù.
Raccontava qualche tempo fa il postulatore della causa di canonizzazione, monsignor Slawomir Oder, che non passa settimana senza che non giungano lettere indirizzate personalmente al Pontefice santo. Richieste di aiuto nelle molteplici difficoltà della vita e, appunto, nella malattia, ma anche ringraziamenti per grazie attribuite alla sua intercessione. Nella lotta al coronavirus, dunque, l’umanità ferita sulla quale in tante forme san Giovanni Paolo II si è chinato nella sua vita terrena, ha oggi un formidabile alleato in cielo, un intercessore instancabile e ascoltato, un amico di tutti e ognuno, «uomo dei dolori che ben conosce il patire» per averlo sperimentato personalmente e più volte nella sua vita.
Ecco perché il quindicesimo anniversario della sua nascita al cielo (che giunge tra l’altro a meno di due mesi dal centenario della nascita al mondo, avvenuta il 18 maggio 1920) si carica di un surplus di significato. E non è certamente un caso che il Rosario che stasera i media della Cei trasmetteranno in contemporanea dal Policlinico 'Gemelli' (ribattezzato proprio da papa Wojtyla «il Vaticano tre», per i suoi diversi ricoveri) si concluderà con una supplica al santo Pontefice polacco. Oggi più che mai, infatti, tutto il suo ministero petrino ci appare segnato dalla luce di quella «cattedra del dolore» che fin dall’attentato del 1981 ne ha scandito le diverse fasi, culminando nelle grandi sofferenze dell’ultimo periodo.
Perciò, a maggior ragione, possiamo esser certi che restando abbracciati alla nostra croce odierna (così come lui stesso fece nell’ultima via Crucis del Colosseo seguita proprio dalla sua cappella privata) nente potrà separarci dalla risurrezione di Cristo. Tanto meno la morte.