Da quando esiste questa rubrica, era l’autunno 2015 e siamo quasi a quattrocento articoli pubblicati, non è mai mancato uno spunto offerto settimanalmente dallo sport per poter, in questo spazio, parlare anche di tanto altro. Tuttavia in alcune settimane, e questa è una di quelle, vorrei poter avere a disposizione quattro pagine di questo quotidiano e forse neppure basterebbero. Il pezzo era pronto: l’ennesima riflessione sull’ennesima vergogna andata in scena a Udine, ancora una volta il razzismo e un disgustoso spettacolo rimbalzato da un nostro stadio in tutto il mondo. Era pronto un commento sulle parole, sacrosante, di Mike Maignan: «Chi non prende posizione contro il razzismo ne è complice». Poi, nel tardo pomeriggio di lunedì, è arrivata la notizia: se n’è andato Gigi Riva. E ancora, la stessa sera, la finale della Supercoppa Italiana a Riad, con i fischi arrivati dal pubblico locale, proprio in occasione del minuto di silenzio per uno dei più grandi campioni del calcio italiano, per il miglior marcatore con la maglia azzurra. E allora l’articolo va riscritto da capo, non c’è dubbio, perché Gigi Riva era un grande campione, anche se di grandi campioni ce ne sono tanti. Lui, però, era uno di quei pochissimi che non hanno mai voluto dare un prezzo alla gioia che regalavano alla propria gente. Che orrore quei fischi, proprio in un momento così triste, proprio quella sera. Fischi che hanno avuto l’unico merito di far cadere, definitivamente, il velo di una rivoltante ipocrisia.
Nell’antichità classica l’avrebbero chiamata nemesi: il ricordo di un atleta che, per amore del calcio, rinunciò a un mare di soldi, fischiato in uno stadio scelto da chi, per un mare di soldi, il calcio se lo è venduto. E allora, come in film struggente, si sono mescolate le lacrime. Quelle per il ricordo di un uomo dalla schiena dritta, capo delegazione della nazionale campione del mondo 2006 capace di prendere la sua valigia e scendere dal bus che stava portando la squadra a ricevere il tributo dei tifosi a Roma, perché su quel pullman (come spesso succede quando si vince) ci stavano salendo persone che fino a poche settimane prima avevano denigrato quella nazionale. Le lacrime di rabbia per un calcio che continua a fare i conti con lo svuotamento di ogni suo valore, bellezza, sentimento. Un simbolo, un uomo nato in Lombardia e capace di farsi adottare da un popolo fino a rappresentarlo con una forza e un’intensità riuscita a pochissimi sardi nati nell’isola, contro il vuoto pneumatico di valori, contro il mercimonio della passione, dall’intensità, dei sentimenti. Una partita impari, dove “rombo di tuono” avrebbe trionfato anche con una gamba sola, lui che una delle sue gambe l’aveva sacrificata per amore dell’altra sua maglia, quella azzurra: frattura del perone e distacco dei legamenti della caviglia, esito dell'entrata-killer del mediano austriaco Norbert Hof nel corso di un match fra Austria e Italia, nell’ottobre del 1970. Ci resta solo un sorriso, immaginando che in questi giorni, lassù, sia iniziata una grande discussione sulla partita del secolo: Italia-Germania 4-3. Sono arrivati da pochissimo un ragazzo tedesco con la maglia bianca numero 4, Franz Beckenbauer, e un ragazzo italiano con la maglia azzurra numero 11, Luigi Riva detto Gigi. Scommetto che potrebbero parlarne per l’eternità.