Sì all’accoglienza, sì alla vicinanza, sì alla comprensione «con rispetto e delicatezza». No alla discriminazione, no all’omofobia, no al giudizio denigratorio. Ma no anche alla confusione, alle posizioni ideologiche e alla banalizzazione. È lo stesso sguardo di misericordia e di simpatia rivolto a tutte le persone che combattono contro le difficoltà, le sofferenze e le ingiustizie quello con cui la Chiesa si rivolge alle persone omosessuali. Mentre si china con l’obiettivo di comprendere «le persone nel loro concreto stato di vita» e rifiuta qualsiasi «irrigidimento ostile», la Chiesa – sono parole pronunciate da Francesco nel discorso conclusivo del Sinodo – rifiuta anche «il buonismo distruttivo che a nome di una misericordia ingannatrice, fascia le ferite senza prima curarle e medicarle» e si guarda sia dalla «tentazione di trasformare la pietra in pane per rompere un digiuno lungo, pesante e dolente», sia di trasformare «il pane in pietra e scagliarla contro i peccatori, i deboli e i malati, cioè di trasformarlo in "fardelli insopportabili"». Un richiamo all’equilibrio e alla misura nella verità che, applicata alla situazione delle persone omosessuali, impone una serie di domande nello sforzo di entrare nel cuore di una situazione di cui troppo spesso si parla per slogan, in bilico tra demagogia e propaganda. La scuola, purtroppo, sembra diventata palestra per il peggior indottrinamento ideologico. Dalla vicenda dell’insegnante di religione di Moncalieri accusata di omofobia che – in una lettera al nostro giornale ha svelato la strumentalizzazione mediatica di cui è rimasta vittima – alla storia del professore di Perugia preso di mira per il suo accanimento omofobo contro un ragazzo considerato dapprima gay, poi presunto tale e infine rivelatosi eterosessuale. Se intolleranza c’è stata insomma, si sarebbe trattato di violenza gratuita – comunque inaccettabile – ma senza nessuna coloritura di discriminazione sessuale. Due fraintendimenti tra i tanti, più o meno orchestrati, che offrono lo spunto per tornare su un argomento comunque controverso, comunque fonte talvolta di disagio e di sofferenza, comunque al centro di un dibattito scientifico che non ha offerto finora parole definitive. Occorre dire innanzi tutto che la riflessione sull’omosessualità, sia a livello pastorale, sia psicologico e filosofico, sconta un ritardo che è figlio da un lato di una propaganda martellante, dall’altro di uno sguardo talvolta troppo normativo. Posizioni che, in entrambi i casi, hanno impedito valutazioni più distaccate. Al recente Sinodo, al di là del breve ma esplicito riferimento nella "Relazione finale", il tema è stato ampiamente affrontato sia nel dibattito in Aula, sia nei "Circoli minori" con uno schema abbastanza uniforme in cui, accanto alla necessità di lasciare le porte aperte a tutte le persone e al dovere di «accogliere con rispetto, compassione e nel riconoscimento della dignità di ciascuno», non si è mai mancato di precisare che «accompagnare pastoralmente una persona non significa dare validità né a una forma di sessualità, né a una forma di vita» (circolo francese A, moderatore il cardinale Roberto Sarah, relatore l’arcivescovo Francois-Xavier Dumortier). Nel circolo italiano A (moderatore il cardinale Fernando Filoni, relatore l’arcivescovo Edoardo Menichelli), è stato ribadito che, mentre è giusto valorizzare «i doni, la buona volontà e il cammino sincero di ciascuno», le unioni tra persone dello stesso sesso «non possono essere equiparate al matrimonio tra uomo e donna, esprimendo anche la preoccupazione di salvaguardare i diritti dei figli che devono crescere armonicamente con la tenerezza del padre e della madre». L’approfondimento "politico" forse più esplicito è arrivato dal Circolo italiano B (moderatore il cardinale Angelo Bagnasco, relatore l’arcivescovo Rino Fisichella), dove è stato messo in luce il pesante clima di condizionamento in cui «sembra si abbia timore di esprimere un giudizio su diverse questioni che sono divenute espressioni culturali dominanti. Questo non appare coerente con la missione profetica che la Chiesa possiede... Ciò diventa evidente soprattutto dinanzi a situazioni che sono assunte come una forma di de-istituzionalizzazione del matrimonio e della famiglia in forza di pretesi diritti individuali».
In sintesi, se ogni situazione personale va rispettata, accolta, compresa, accompagnata e guardata con misericordia, appare invece infondata la pretesa di trasformare una scelta di vita individuale in modello politico e culturale valido per tutti e verso cui, pena addirittura il rischio di sanzioni (legge sull’omofobia in discussione in Parlamento), si dovrebbe evitare di esprimere dissenso. Non si tratta di denigrare le unioni affettive omosessuali ma di affermare con chiarezza che il tentativo di attribuire ad alcune situazioni particolari una valenza sociale allargata apre la strada a un pesante sfaldamento valoriale e simbolico. Calpestare il dato di realtà del maschile e del femminile in nome del concetto opinabile dell’orientamento sessuale – secondo le teorie del gender – significa aprire la strada a una società dell’immaginario che nega la verità dell’umano. Monsignor Tony Anatrella, sacerdote e psicanalista francese, presente al Sinodo in qualità di esperto, ha spiegato con chiarezza la contraddizione secondo cui, mentre si nega la realtà affermando che le differenze tra uomini e donne sarebbero quasi esclusivamente costruzioni sociali e quindi "non naturali", per quando riguarda l’omosessualità – che secondo alcuni esperti avrebbe origini del tutto naturali – «è giusto appellarsi alla nozione di natura». Anatrella, che come psichiatra ha visitato migliaia di bambini che vivevano la bisessualità dei loro genitori e ne ha constatato le conseguenze problematiche, sostiene esattamente il contrario: «Dobbiamo sgomberare il campo da tanti luoghi comuni: l’omosessualità – ha affermato recentemente alla Settimana estiva dell’Ufficio nazionale Cei di pastorale familiare – non ha alcuna origine genetica, biologica o neurologica. Ha prima di tutto origine psicologica. Oggi sono numerose le false ricerche sul tema e sono stati fatti, senza successo, molti esperimenti per vedere se ci fosse un’origine ormonale».
Non una posizione dogmatica quindi, ma scientifica – anche se sostenuta da una robusta base di esperienza diretta – e verso la quale è lecito esprimere considerazioni diverse. Così come è lecito avanzare perplessità nei confronti delle varie terapie riparative che vorrebbero aiutare gli omosessuali a guardare con più serenità dentro se stessi. Anche in questo caso siamo nel campo dell’opinabile. Parlare di queste proposte terapeutiche fa però scattare un riflesso condizionato nel mondo delle lobby gay. Una sorta di demonizzazione preventiva che trasforma quella che è comunque una proposta di assistenza psicologica in pratica simil-stregonesca, comunque omofoba e in ogni caso da ostacolare con tutti i mezzi. Come se fosse vietato agli omosessuali, che vivono con disagio e sofferenza la propria condizione, chiedere un aiuto specialistico. Anzi, secondo una certa visione irenistica dell’omosessualità, queste persone incerte sulla propria identità sessuale non esisterebbero o comunque sarebbero vittime della propaganda oscurantista. Invece non è così. Più volte su queste pagine abbiamo raccolto la testimonianza sofferta di giovani che, in cerca di una parola di conforto e di chiarezza, si sono visti chiudere le porte in faccia da decine di psicologi. Ormai, non solo in Italia, l’ipotesi di "curare l’omosessualità", anche se fonte di malessere interiore, equivale a un’offesa intollerante e blasfema. Una tirannia del pensiero unico che non serve a nessuno, non fa avanzare di un passo la riflessione su un tema complesso e delicato, e non contribuisce a creare quel clima di accoglienza e di comprensione che sarebbe indispensabile per spogliare finalmente da qualsiasi condizionamento ideologico la ricerca sull’omosessualità.