Caro direttore,
desidero, per prima cosa, ringraziare lei e i suoi collaboratori per il modo preciso e sereno con cui ci aggiornate su tutto ciò che di importante avviene in Italia e nel resto del mondo. Poi, vorrei chiederle la cortesia di aiutarmi a superare un dubbio che mi assilla. Mi risulta che ci sono norme internazionali che obbligano le navi (di qualsiasi nazionalità) a soccorrere chi corre il rischio di annegare e a portare queste persone nel porto sicuro più vicino. Se queste norme esistono davvero, come è possibile che, da ultimo nel caso dei naufraghi salvati della “Sea Watch 3” vengano ignorate o, addirittura, contraddette non solo dall’Italia, ma perfino dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? La ringrazio anticipatamente dei chiarimenti che mi fornirà.
Alberto Palmas, Sassari
Grazie caro amico lettore, per l’apprezzamento che riserva al nostro lavoro. Stiamo cercando di articolare da giorni su “Avvenire” risposte efficaci a domande come le sue, ricordando le norme fondamentali (internazionali e italiane) che non solo legittimano, ma impongono soccorso e accoglienza degli esseri umani in difficoltà e provenienti da Paesi in guerra o comunque insicuri. Quest’alta legalità esiste, e non può e non deve essere violata. Abbiamo inoltre offerto, oltre gli slogan interessati e distorcenti, anche il contenuto autentico della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sul ricorso relativo al caso della “Sea Watch 3”, che pur rigettando la richiesta – diciamo così – di un’intimazione umanitaria urgente, in nessun modo ha legittimato la cosiddetta “politica dei porti chiusi” solo a determinate categorie di persone. Legga, se vuole, oltre all’editoriale in prima, i servizi che pubblichiamo nelle pagine 6 e 7 e troverà altri elementi di valutazione e di chiarezza.