Provate a camminare anche voi, da fratelli e da sorelle, sulla strada delle donne comprate e vendute come schiave del sesso. Lo faccio da trent’anni e ho capito che l’abominio della tratta di esseri umani prima di rivelarsi un business per le organizzazioni criminali è un habitus mentis. Cioè un modo di pensare il più debole, sulla scia di una avvelenata mentalità che è alla base di un processo del quale noi vediamo solo la triste punta dell’iceberg.
Non possiamo, infatti, dimenticare che il regime di schiavitù è stato per millenni ritenuto normale, quasi una necessità sociale. Nell’antichità greca e romana gli schiavi erano indispensabili per soddisfare tutti i bisogni quotidiani e di qualunque altro genere. I 'padroni' li abbiamo avuti in Occidente fino al secolo scorso e avere 'la serva o il servo' in alcune situazioni non è solo espressione di un linguaggio, ma è una sistematica modalità di concepire la sottomissione.
Basti pensare alla resistenza delle caste in diversi paesi asiatici e alla condizione della donna alla quale vengono vietate infinite possibilità. Oltre alle conseguenze tragiche per chi vuol cambiare religione o di chi cerca di emanciparsi dalla repressione familiare e sociale. Per non parlare delle piaghe del lavoro minorile e del turismo sessuale e dei bambini messi in vendita. E poi c’è chi per non morire di fame si consegna nelle mani dei trafficanti di organi. E c’è chi, per non far mancare il pane ai figli o per colpa di una promessa illusoria, finisce nella rete del racket della prostituzione. Un ventaglio orrendo di possibili trappole criminali che si evolvono e si amplificano nel mondo globalizzato dove la tratta ha già il suo '5G' e cioè arriva prima e meglio di chiunque altro ad accalappiare, controllare e dilaniare vittime attraverso il suo network sanguinario.
A dimostrazione che dietro la tratta c’è soprattutto una mentalità deviata, posso portare la mia trentennale esperienza con la Comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi sulle strade della prostituzione. Nella drammatica crisi economica che stiamo attraversando ritorna la tentazione diabolica di considerare il corpo delle 'donne crocifisse' come merce da tassare nello squallore materialistico di un consumismo immorale che non si ferma neppure davanti a vittime innocenti. Papa Francesco ha condannato il mercimonio coatto come una «condotta schifosa» e un «crimine contro l’umanità».
Nel lager in Libia e sui barconi alla deriva nel Mediterraneo ci sono anche le nostre figlie e sorelle, non vite a perdere sulle quali addirittura imporre tasse o bolle di consegna per le 'madame' incaricate di smistarle sui marciapiedi delle nostre città.
Non so se potrà mai rimarginarsi la ferita della povera ragazza nigeriana che accompagnai al pronto soccorso quella notte che un cosiddetto 'cliente' le aveva schiacciato la mano nella portiera della macchina per riprendersi i soldi della prestazione sessuale. In ospedale fu più il fastidio che la compassione: «Padre, ma lei che vuole fare il salvatore del mondo?», mi sono sentito domandare all’accettazione. Uno sconcerto paragonabile solo alla disperazione con la quale un’altra vittima della tratta descriveva la nascita e la morte del suo bimbo in strada.
Una disumanità che trova atroce manifestazione persino nelle pietre e nelle bottiglie che per scherno tanti giovani, troppi, scagliano contro le donne schiavizzate al termine di serate 'goliardiche' nelle quali si sentono autorizzati a disprezzare e offendere le più indifese delle creature. Devono vergognarsi anche coloro che, sotto lo sguardo dei loro figli e delle loro figlie, pretendono che lo Stato equipari la prostituzione a un lavoro e che apponga il 'bollino' di qualità, e anche quello del-l’Iva, sulla vendita di carne umana.
Sono in particolare due Papi, gli unici leader mondiali che hanno avuto il coraggio – con una carezza in piazza San Pietro, papa Wojtyla e un 'mea culpa' a nome dei cristiani papa Bergoglio – di riconoscere Cristo nel volto sfigurato di quelle che don Benzi chiamava «sorelline». Ricordiamoci, oggi che siamo di fronte al bivio etico della pandemia, che saremo giudicati un giorno da come avremo trattato i più fragili di noi.
Comunità Papa Giovanni XXIII