L’ex Ilva di Taranto potrebbe chiudere. L’addio all’Italia di Arcelor Mittal, che ha in affitto gli impianti e si era impegnata ad acquistarli definitivamente nel luglio del 2021, renderebbe quasi impossibile, se confermato, trovare in breve tempo un nuovo proprietario, un "cavaliere bianco" – si pensa forse possa essere lo Stato? – disposto a riqualificare l’acciaieria e l’ambiente circostante, secondo un piano varato in sede di accordo tra la multinazionale siderurgica e i governi che, passandosi il testimone, negli ultimi tre anni hanno seguito il dossier. La chiusura del maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa avrebbe un impatto devastante in ottica occupazionale e quindi sociale sul territorio di riferimento.
E riflessi pesanti sull’intera manifattura italiana. Il rischio, cioè, è fare di Taranto una nuova Bagnoli senza nemmeno bonificarla. Ma le ricadute – ancora negative – ci sarebbero pure sulla capacità del sistema Paese di attrarre investimenti esteri nell’economia reale; sulla nostra reputazione che troppo spesso sconta un deficit di affidabilità.
Cambiare le regole del gioco nel bel mezzo della partita – lo 'scudo penale' è stato prima garantito e poi tolto – è sintomatico di una incertezza giuridica e di una mancanza di politica industriale o di scelte sbagliate che hanno determinato negli utlimi decenni la desertificazione nel Sud Italia. Taranto, con la sua fortuna e i suoi veleni legati all’acciaio, è purtroppo l’emblema di tutto ciò: una città-fabbrica nel Paese che resta la seconda manifattura continentale in cui storia economica e storia d’impresa, storia urbana e storia ambientale, storia politica e storia sociale si intrecciano indissolubilmente. Sono anzitutto i numeri a ricordarlo: l’azzeramento della produzione nell’ex Ilva, 6 milioni di tonnellate annue, costerebbe al Paese l’1,4% del Pil, circa 24 miliardi, più di quanto stanziato in manovra per evitare l’aumento dell’Iva.
Altrettanto devastante l’impatto sul lavoro, visto che attualmente per il Gruppo siderurgico lavorano in Italia 10.700 dipendenti, di cui 8.200 a Taranto, senza contare l’indotto. C’è infine il drammatico costo ambientale: Arcelor Mittal si era impegnata a investire nel risanamento dell’area oltre un miliardo di euro.
A pagare il prezzo dell’abbandono sarebbero dunque prima di tutti gli operai e i tarantini, poi l’economia nazionale e gli italiani, a conferma di come lo Stivale resti uno e ogni questione meridionale sia in realtà una questione che interessa il Paese intero. Pagheremmo tanto e pagheremmo tutti, quindi, per la miopia di una politica diventata sempre più incapace di un’azione coerente, non solo tra una legislatura e l’altra, ma anche all’interno della stessa.
La vicenda dello scudo per Ilva lo testimonia con impressionante evidenza: approvando il Decreto Salva-imprese, il Parlamento il 3 novembre scorso ha eliminato la protezione legale necessaria alla società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale. L’immunità, predisposta da una legge del 2015, era stata tolta nella primavera scorsa dal governo giallo-verde con il Decreto Crescita, per poi essere reintrodotta, sempre dall’esecutivo Conte 1, e quindi modificata e circoscritta col Decreto Imprese del governo Conte 2 a settembre.
Un drammatico giro di valzer in cui di volta in volta le due anime dei rispettivi schieramenti governativi addossavano alla controparte o a terzi la responsabilità della scelta. A parole, naturalmente, salvo poi votare a favore come merce di scambio. Uno scaricabarile a fini propagandistici, non certo di politica industriale, che nella nuova versione del potere esecutivo in cui maggioranza e opposizione coabitano e si alternano a seconda dei temi in agenda, finisce per rendere ambigua ogni decisione. A spegnere gli altoforni di Taranto potrebbe così non essere la legittima scelta di riconvertire e rilanciare l’ex Ilva con un poderoso piano d’investimenti pubblici e privati, ma l’incapacità strutturale della politica di scegliere. Sulla nostra pelle.