Alle otto del mattino, sul marciapiede di una scalcinata stazione di autobus alla periferia di Milano, spio con ansia tutti i pullman che si avvicinano: due dei nostri figli tornano da Cracovia, e io non vedo l’ora di riabbracciarli. (Ho avuto, lo ammetto, paura, dopo ciò che era successo a Rouen). E stamattina sono venuta qui con quasi un’ora di anticipo, la prima mamma ad arrivare – la più chioccia, sorrido fra me. Passano i pullman e passano i minuti, guardo l’orologio, finché da un gigante di acciaio grigio, accaldato dalla lunga corsa, spunta il figlio maggiore. Discreta, resto in disparte mentre con i suoi compagni si abbracciano e si fotografano, tutti insieme, ridenti, nell’ultimo saluto.
Poi, eccolo, finalmente me lo abbraccio io. Ha la barba lunga, e l’aria di un giovane soldato vittorioso. E la piccola, la piccola, 19 anni, ancora non si vede. Ovviamente ha il cellulare scarico, impossibile comunicare. Guardo interrogativa ogni corriera che avanza per il viale. Le nove, quasi: dovrebbe essere qui. Questione di minuti, mi ridico. Ma di colpo un pensiero come una lama mi atterrisce: pensa, mi dico, alla madre e al padre di quella ragazza che non è tornata. C’era anche lei, felice, alla partenza per la Gmg, lo zaino enorme pieno di giacche a vento e borracce e cerotti, c’era anche lei, e come mia figlia aveva appena dato la maturità.
C’era anche lei, e non ritornerà. Nel caldo dell’agosto di Milano questo pensiero mi raggela. Mio Dio, mi chiedo, come faranno, quella madre e quel padre. E avverto in me come un tonfo sordo, e l’urto di un intollerabile silenzio. Diciannove anni anche lei, e un modo di sorridere che si ha solo a quell’età; e i progetti per le vacanze, per l’università, e tutta la vita davanti. Susanna non è tornata a Roma.
Non ho alcuna risposta alla domanda che preme dentro. Dicevano gli antichi che muore giovane chi è caro agli dei. È un’elezione questo essere stata scelta e presa da Dio, fra centinaia di migliaia, come se Dio stesso la rivolesse subito con sé? Io ci credo, nella vita eterna, e che saremo molto più felici, di là. Io credo che Susanna viva in Dio, salva ormai da ogni male, e fanciulla per sempre. E tuttavia come ringrazio Dio, perché mia figlia, invece, torna. Eccola che scende dal pullman, assonnata, i capelli lunghi spettinati, sorridente. La abbraccio e lei non capisce perché la stringo così forte, dopo una settimana appena.
Me li riporto a casa in auto, i due, lui silenzioso, lei che chiacchiera come un’allodola, e racconta di come si dormiva bene anche per terra, e delle parole del Papa; della gentilezza della gente e del mangiare che, invece, descrive sconsolata. Dice che stamane all’alba, al passaggio del confine, ha guardato a lungo le campagne friulane: «L’Italia mi è sembrata bellissima». Sorrido, anche questo è un dono dei giorni a Cracovia. E, domando, «non avete fame? A casa c’è la focaccia, la pizza». E in tutta questa gioia tuttavia si riaffaccia quel pensiero di una stanza muta, di libri chiusi per sempre. Di un corridoio di liceo romano, in cui in una bacheca si legge: promossa. E attorno, nel caldo, un grande vuoto.
Mio Dio, aiuta quella madre e quel padre, mi ripeto. Dovremmo dirlo tutti, noi genitori di Cracovia, noi che li abbiamo ritrovati, e anche come un po’ più adulti. Dovremmo, muti davanti a un destino che non possiamo pretendere di capire, abbracciare quella famiglia in una preghiera grande.