Sabato, 19 marzo 1994. Solennità di san Giuseppe. Nella parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, don Peppe Diana, il giovane parroco, che festeggia il suo onomastico, si appresta a celebrare la Messa delle 7,30. Accade tutto alla velocità del lampo. Un uomo si affaccia alla porta della sagrestia. È un killer della camorra. Lo chiama per nome, il parroco si gira e viene freddato con quattro colpi di pistola. La notizia si spande in un baleno. È il panico. Per quanto sanguinaria e prepotente, a memoria d’uomo, la camorra non si era mai spinta a tanto. Non per devozione verso il luogo sacro o la figura del sacerdote, ma solo per non inimicarsi i fedeli.
Quella tragica mattina fui tra i primi preti della diocesi ad arrivare sul luogo del delitto. Il poliziotto di guardia all’ingresso della chiesa mi fece cenno di avvicinarmi e mi aprì la porta. Entrai. Peppe era là, a terra, in un lago di sangue. Il cuore sembrò che volesse impazzire. Un senso di smarrimento si impossessò di me e dei pochi confratelli presenti. Il vescovo Lorenzo Chiarinelli, allora padre della nostra Chiesa locale, ci volle accanto a sé, sull’altare. Avevamo tutti la faccia color latte. «Preghiamo» disse con un fil di voce. «Preghiamo». Un silenzio di piombo cadde fra noi. Nessuno osava parlare. Solo la fede in quel momento poteva contrastare lo sgomento che ci invadeva.
Pregammo. Smarriti. La testa china. Ognuno cercava nell’altro la risposta a una domanda che non osava fare. Perché? Sapevamo tutti chi era don Peppe Diana, la sua sete di giustizia, il suo impegno nel contrasto alla camorra. Le sue denunce, i suoi proclami, le sue sferzate. Le sue omelie. Non aveva paura di nessuno, don Diana. Tutti eravamo a conoscenza del volantino che scrisse e fu distribuito nelle chiese del paese il giorno di Natale del 1991: «Per amore del mio popolo non tacerò». Non tace? Che vuol dire che non tace?, si saranno chiesti i camorristi. Se non tace, parla, urla. E per dire che? Accusare chi? Questo prete comincia a dare fastidio. Sta alzando troppo la testa. E alla camorra gli uomini liberi non piacciono.
Non fu presa a cuor leggero la decisione di eliminarlo. Sapevano bene, i criminali, a quale rischio andavano incontro. Lo corsero. Anche perché Nunzio De Falco, uno dei mandanti, si convinse – e a questo puntava – che la colpa sarebbe ricaduta sui suoi più acerrimi nemici, quelli del clan Schiavone. Seguirono giorni concitati, dolorosi, confusi. Un incubo. La macchina del fango entrò in funzione immediatamente, seminando tanta di quella zizzania che anche tra le persone oneste iniziò a serpeggiare qualche dubbio. Si cominciò – poteva mancare? – con l’insinuare un movente a sfondo passionale. Si continuò facendo balenare – addirittura – l’ipotesi di una sorta di complicità tra la camorra e il parroco. Vergognosa oltre ogni dire fu la prima pagina di un giornale campano che titolava a caratteri cubitali: «Don Peppino è un camorrista». Parole bugiarde che pugnalarono il cuore di Gennaro e Jolanda, i genitori; di Emilio e Marisa, i fratelli. Una pugnalata al cuore del popolo di Casale, dei suoi scout, della Chiesa di Aversa, dell’intera Chiesa italiana. Ma la gente buona smise presto di aver paura. Comparvero i primi striscioni, le prime lenzuola bianche alle finestre. Ai funerali parteciparono migliaia di persone, per lo più giovani.
Sono passati 29 anni da quella mattina. Dopo la croce, la risurrezione. La verità è venuta alla luce. Il sangue di don Peppe è stato il seme che ha dato vita a una foresta di associazioni, comitati, amministrazioni comunali, gruppi ecclesiali, volontari, che combattono per la legalità nei nostri territori. Nunzio De Falco, condannato all’ergastolo, si è spento l’anno scorso, portandosi nella tomba tanti segreti. I genitori di Peppino lo hanno raggiunto nella gloria di Dio.
Martedì 21 marzo a Casale, primo giorno di primavera e ventinovesimo anniversario del funerale di popolo di don Peppe, arriverà il Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, l’uomo al quale la mafia siciliana uccise il fratello, verrà ad abbracciare i fratelli di un prete trucidato dalla camorra campana. E con loro, la Chiesa di Aversa e il popolo di Casale. Un abbraccio memorabile. Rafforzerà la volontà di continuare, ognuno per la propria parte, la lotta contro ogni prepotenza, ogni illegalità, ogni sopraffazione. La camorra deve essere estirpata dalla nostra terra fin dalle radici. Non è utopia crederlo. Per realizzare il sogno di pace che non ci lascia mai occorre, però, che ognuno faccia la sua parte, soprattutto il mondo della politica. Perché tutta l’ Italia inizi finalmente a camminare a una sola velocità, e sulla buona strada.