Luisa Merli
Credo che il suo stato d’animo, cara signora Luisa, sia condiviso da molti; che il suo stesso sconcerto e la sua stessa angoscia assedino la mente e il cuore di chi guarda con disillusione e allarme crescenti alla convulsa stagione di sterili diatribe e di contrapposizioni frontali che il nostro Paese attraversa. Lei sollecita chi ha responsabilità di governo (centrale o locale) e chi siede nelle assemblee elettive a cambiare punto di vista, a sceglierne uno un po’ più simile a quello della gente normale. Quel punto di vista che anche questo giornale s’impegna, ogni giorno, a proporre. Purtroppo ancora non si vedono né s’intravvedono segnali di un salto di qualità che, invece, sarebbe sempre più urgente. E anche se mi costa molto, perché amo il mio mestiere e credo che in Italia ci siano tanti buoni giornalisti, non posso che convenire con lei, gentile signora, sul fatto che anche parti significative del mondo dei mass media stanno facendo ben poco per invertire questa tendenza alla distrazione e al gioco al massacro. Una tendenza terribile, ma che incentivano in molti modi e, in qualche caso, anche con entusiasmo. Tutto questo porta a pensieri amari, ma non può assolutamente spingere alla rassegnazione. E noi di Avvenire, come avrà visto leggendo anche oggi le nostre cronache e i nostri commenti, intendiamo continuare a dar conto di tutto, senza però perdere mai di vista la «stella polare»: offrire opinioni limpide e un’informazione che ha per interesse e obiettivo soltanto quelli di essere corretta e di dare sempre attenzione alla vita concreta delle persone e delle comunità. Per questo ci sforziamo di dare sempre e con onestà a ciascuno il suo. Per questo abbiamo riconosciuto e apprezzato quanto fatto dal governo a salvaguardia dell’occupazione e ogni iniziativa tesa a tutelare lavoratori e imprese in difficoltà. E per questo non cessiamo di segnalare i problemi irrisolti. I tragici episodi di cui continuiamo a prendere preoccupata nota (i due editoriali dai lei citati rappresentavano una sorta di drammatico «bilancio» provvisorio) impongono una più forte assunzione di responsabilità e, dunque, risposte adeguate. Chi sale sui tetti e strilla – e quanti ne abbiamo visti e raccontati – ha ancora quel granello di speranza che lo induce a lottare, a offrire e a chiedere lavoro, ad aspettarsi qualcosa di buono. Chi si uccide senza dire parola e a volte senza avere la forza di lasciare un biglietto ai propri cari denuncia una condizione enormemente più grave, sulla quale bisogna davvero aprire gli occhi. Quale tema, più di questo, merita attenzione in campagna elettorale? O dobbiamo davvero continuare ad assistere a duelli rusticani in Parlamento, in piazza e nei palazzi di giustizia nel nome di regole che sembrano valere quasi solo per gli altri e che, di questo passo, rischiano di non regolare e di non tutelare più alcuno?
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