Osservando come è cambiato nel tempo il livello di sopravvivenza della popolazione italiana viene spontaneo affermare, dati alla mano, che «ogni giorno che passa non è uno in meno». Basti pensare, ad esempio, che un neonato maschio aveva nel 2000 un’aspettativa di vita – ossia l’ulteriore durata (media) della sua sopravvivenza- pari a 76,5 anni, ma se – guardando ai dati del 2010 – andiamo a verificare la stessa aspettativa al suo decimo compleanno, scopriamo che essa è ancora di 69,8 anni. In sintesi, il nostro bambino ha "vissuto" un decennio ma ha consumato solo poco meno di 7 anni del suo "capitale di vita residua": un guadagno di quasi 3 anni che è in gran parte imputabile proprio al miglioramento della sopravvivenza media della popolazione italiana.
Analogamente un maschio ventenne guadagna, per lo stesso motivo, 2,7 anni e così via passando alle età successive; con valori che, quand’anche ridotti, restano pur sempre attorno a un anno di vita guadagnata anche per i più anziani. E se è vero che in genere le donne mostrano performance leggermente inferiori, va anche ricordato che la popolazione femminile parte già da livelli di sopravvivenza assai più favorevoli. Pertanto, è indubbio che il processo di allungamento della vita nel corso degli ultimi trent’anni si sia sviluppato intensamente e regolarmente e che, se si escludono occasionali piccole inversioni di rotta dovute a fenomeni eccezionali (molti ricorderanno la così detta "estate killer" del 2003), tale processo abbia interessato tutti e tutte le fasce d’età: dagli infanti ai grandi vecchi, al Nord come al Sud. La generosa elargizione di un’esistenza sempre più lunga, spesso anche in buona salute, e sostanzialmente rivolta a tutte le categorie di commensali al banchetto della vita, fa tuttavia ancor più risaltare la presenza di un gruppo di sfortunati che sono stati "esclusi" dai benefici del progresso. Ci si riferisce a una categoria non marginale, il così detto "popolo dei non nati" per scelta volontaria (escludendo dunque i casi di abortività spontanea); ovvero ai soggetti la cui durata di vita, avviatasi all’atto del concepimento, è stata pressoché azzerata "ai sensi di legge" e in ossequio ad un discutibile principio di libera scelta. Si tratta degli attuali più di centomila casi annui (e un tempo persino il doppio) di interruzione volontaria della gravidanza (le così dette IVG), il cui computo, del tutto escluso dai calcoli ufficiali sui livelli di sopravvivenza, porterebbe alla rivisitazione del dato sulla durata media della vita e, in ultima analisi, alla sua stessa lettura con toni assai meno trionfalistici. Di fatto, se si considerano circa 5 milioni di IVG registrate a partire dai primi anni Ottanta, a fronte di 19 milioni di nascite, e si calcola, per lo stesso arco temporale, il dato sulla "speranza di vita al concepimento" – usualmente intesa come misura dell’ulteriore durata (media) della sopravvivenza- si ottengono valori che variano dai meno di 60 anni nel 1980 ai poco meno di 70 attuali. È ben vero che l’accrescimento nel tempo è persistente e ben recepisce, anche con questo diverso approccio, i guadagni lungo le diverse età della vita, ma è altrettanto vero che esso viene decisamente sminuito dall’amara constatazione del drastico taglio che l’aspettativa di vita registra quando si passi dalla nascita al concepimento.Paradossalmente, l’aggiungere al percorso di vita del concepito i nove mesi nel seno materno determina una riduzione di quasi quindici anni nell’effettiva durata media della sua esistenza. Ciò vale allo stesso modo sia per i maschi che per le femmine e si manifesta, senza apprezzabili variazioni, nel corso di tutto l’ultimo trentennio. D’altra parte l’azione svolta dall’aborto nel togliere anni all’aspettativa di vita risulta chiaramente evidente anche alla luce dei confronti internazionali. Non è infatti un caso che l’Italia, ai vertici nella graduatoria europea riguardo alla durata della vita alla nascita (seconda solo alla Svizzera, in base ai dati Eurostat del 2010), scenda all’ottavo posto allorché si considera la stessa durata ma al concepimento. E analogamente non sorprende rilevare che se, da un lato, quest’ultima non subisce alcun effetto riduttivo in un paese come la Polonia; dall’altro essa si abbassa di ben 28 anni in Russia e di almeno 20 anni in quasi tutte le realtà nazionali che hanno fatto parte dell’impero sovietico o della sua sfera di influenza. In conclusione, una diversa elaborazione dei dati sulla sopravvivenza, giustamente orientata ad accogliere il principio che la vita abbia inizio con il concepimento, aiuterebbe a interpretare le dinamiche in atto con doveroso realismo. Senza nulla togliere alla giusta soddisfazione per i progressi di una società che aspira legittimamente a spostare in avanti il confine della sopravvivenza, sembra infatti necessario riconoscere che sussistono nodi problematici e tutt’altro che marginali da affrontare. L’immagine del volo della "cicogna pigra" che fermandosi nell’Africa sub sahariana – invece che atterrare in Europa – toglie al neonato fino a venti anni di aspettativa di vita è certamente infantile, ma rende bene la cruda verità di un sottosviluppo incolpevolmente subito. Ma a ben vedere è la stessa amara verità che si coglie in quei paesi del Nord del mondo dove un calo dell’aspettativa di vita (al concepimento) di pari entità è il frutto di decisioni consapevoli e di scelte che, peraltro, si dicono libere e rispettose dei diritti fondamentali.