Al crescente ricorso delle aziende alla consulenza è dedicato il saggio critico "Il Grande Imbroglio" (Laterza) delle economiste Mariana Mazzucato e Rosie Collington - .
Perché le società di consulenza da strumento di aiuto alle imprese sono diventate una debolezza di imprese, governo e istituzioni? Quando e perché la consulenza, un’industria che oggi sfiora i mille miliardi di dollari, si è trasformata da risorsa nella principale malattia della nostra economia? Il Grande Imbroglio («The big Con»), il libro scritto dalle economiste Mariana Mazzucato e Rosie Collington (Laterza, 2023), tratta esattamente questi temi: «La nostra analisi dell’industria della consulenza traccia un quadro cupo della situazione attuale. Tutti questi contratti con società di consulenza che interpretano i ruoli più vari indeboliscono le imprese, infantilizzano il settore pubblico e distorcono l’economia» (p.12). Per capire la novità del libro occorre fare una lunga premessa.
Il successo straordinario della consulenza, il fenomeno economico forse più rilevante di questo inizio di millennio, si inserisce in un cambiamento molto più generale della nostra cultura, dove il paradigma del business sta conoscendo un grande, inatteso e crescente successo. La logica della grande impresa ha preso nella vita civile il primo posto che nel Novecento era occupato dalla democrazia. Alla domanda: “vuoi fare qualcosa di buono nella società?” ieri si rispondeva: “crea democrazia, quindi partecipazione, riduci le diseguaglianze, includi più persone possibile. Su questa risposta abbiamo immaginato e poi costruito i welfare del XX secolo, i diritti umani e sociali, la scuola pubblica, la sanità universale, le pensioni, la tassazione progressiva. Col passaggio di millennio, a quella stessa domanda oggi si risponde: “se vuoi fare qualcosa di buono impara dalle imprese, è lì dove si trova l’eccellenza, lì fanno le cose serie”. Così, le grandi imprese for-profit hanno subìto una vera metamorfosi simbolica e culturale: da icona dello sfruttamento, della diseguaglianza e dell’alienazione sono divenute il simbolo perfetto del nuovo mondo, il regno del merito e della sua nuova giustizia, del benessere e persino della felicità, un mondo religioso edificato sui dogmi della meritocrazia, della leadership e degli incentivi. E così, la grande impresa, da centro del conflitto sociale, da luogo dove guardare per capire le ingiustizie del capitalismo, ha lasciato la sua crisalide nel vecchio millennio ed è diventata una bellissima farfalla civile ed etica, che ogni altra istituzione (dalla scuola alla politica) vorrebbe e dovrebbe imitare, con un inedito successo nell’ambito delle Chiese e nei Movimenti e comunità spirituali dove ormai non si riesce più a fare un capitolo generale o un’assemblea senza i professionisti della consulenza aziendale.
La consulenza sta emergendo però come seconda recente rivoluzione, che in pochi anni ha sostituito la prima forma che la cultura d’impresa aveva assunto nell’ultima parte del XX secolo, cioè il management scientifico. Intatti la prima forma che ha preso la cultura della grande impresa moderna è stata il management moderno, che ha preso a sua volta il posto della “vecchia” direzione d’impresa, sebbene senza ancora sostituire il vecchio imprenditore e lavorando con e per lui/lei. In realtà, il management scientifico è innovazione che risale alle grandi fabbriche manifatturiere della prima metà del XX secolo (non a caso si parla di “fordismo” e “taylorismo”), ma per oltre mezzo secolo e oltre la scienza del management era rimasta faccenda di ingegneri (non di economisti) ed era applicata soprattutto alla grande industria. È con gli anni ‘80 e ‘90 che il management scientifico si è esteso dalla fabbrica a ogni tipo di organizzazione, anche per il passaggio tecnologico al postfordismo. Con la fine del Millennio il fordismo è passato in molte regioni avanzate del mondo, non il suo modello di gestione delle relazioni lavorative e di governance. Così gli strumenti e le tecniche del management sono diventate cultura universale, che è uscita dalla fabbrica ed entrata nella società intera. Il manager prende così il posto da una parte dell’imprenditore e dall’altra del vecchio capo ufficio o dirigente pubblico.
Nella stagione di grande successo del management moderno è però accaduto qualcosa di veramente nuovo. È esplosa la società liquida, che entrata per prima nelle imprese. Con lavoratori liquidi, quindi fragili e insicuri, il management non funzionava più, perché anche l’impresa manageriale aveva bisogno di lavoratori già formati all’etica delle virtù nella famiglia e nella comunità. In particolare, il nuovo manager aveva pur sempre bisogno della gerarchia, e quindi lavoratori che le attribuissero un valore e che accettare di essere guidati e “controllati” con gli strumenti del management – essenzialmente incentivi e controllo. I manager si ritrovavano così inondati da una enorme richiesta di attenzione, di lamentele, di conflitti, di crisi relazionali collettive e individuali, lavoratori che stavano cambiando troppo profondamente. A loro volta, i manager non avevano, quasi mai, luoghi più “alti” nei quali scaricare e compensare le tensioni che accumulavano, perché le imprese perdevano le famiglie imprenditori che le avevano generate. La domanda di cura delle relazioni che investiva il middle e top manager si bloccava nel management senza avere questo altri luoghi di supervisione dove gestire questa domanda proveniente dal basso delle imprese.
È in questo contesto di grande cambiamento che esplode qualche anno fa la consulenza. Già esisteva da qualche decennio, ma col XXI secolo diventa qualcosa di diverso e universale. Accanto ai manager e quello che restava dell’imprenditore nelle grandi imprese (molto poco) si è formata una pletora molto varia di consulenti, ai quali si sono aggiunti psicologi del lavoro, esperti della felicità e del benessere lavorativo, filosofi pratici del senso, della mission e dello scopo (purpose), ma anche sacerdoti, suore ed esperti di meditazione trascendentale e delle spiritualità arcaiche del Pacifico per l’accompagnamento e la formazione alla spiritualità d’azienda, per non parlare delle nuove figure di coach e counselors che si presentano ai nostri studenti come la professione sicura del futuro. Così, mezzo secolo fa a guidare le imprese erano gli imprenditori, trent’anni fa i manager, oggi i consulenti, che stanno sostituendo imprenditori e manager.
In tutto questo processo due sono i fenomeni analizzati con particolare cura dalle autrici de Il grande imbroglio: l’infantilizzazione delle aziende e l’outsourcing delle competenze. L’infantilizzazione (trattata nel capitolo 6) dei governi, delle imprese e ormai delle organizzazioni e di ogni istituzione nasce dalla loro progressiva riduzione di autonomia. Il libro, dati alla mano, fa vedere che si sta creando una vera addiction da consulenti, chiamati da imprenditori e manager sempre più insicuri; e poi come accade in tutte le dipendenze senza sostanza, per mantenere domani la stessa soddisfazione di oggi devo aumentare la dose (p.156). Imprese e imprenditori ridotti a bambini non autonomi, che per ogni scelta si rivolgono all’esterno in certa di sicurezze – la presenza delle grandi società di consulenza è anche una sorta di “certificazione” delle relazioni e della gestione delle emozione, simile alle antiche certificazioni di qualità.
Ecco perché la consulenza non cresce per offerta indotta; no, è guidata dalla domanda, perché sono le imprese (e le istituzioni) che – drogate – ne chiedono sempre di più: «L’offerta è una risposta ad una domanda» (p.104). I consulenti svolgono anche una funzione psicologica (p.127). L’infantilizzazione è dunque perdita di autonomia nelle decisioni e quindi di responsabilità e di controllo sulle scelte che vengono “appaltate” a soggetti terzi che finiscono per essere i veri conduttori delle istituzioni di oggi. Le autrici vedono anche la politica nazionale e internazionale ormai guidata soprattutto da consulenti, con un enorme problema di conflitto di interessi, perché sono le stesse compagnie di consulenza che da una parte assistono i governi per ridurre l’impatto ambientale e dall’altra le imprese per aiutarle ad aumentarlo (p.241).
Interessante poi un punto sottolineato nella parte centrale del libro: la quota di valore aggiunto che va alla consulenza non è tecnicamente profitto ma una rendita (pp.103 e seguenti), perché è parte di un gioco a somma zero con gli imprenditori, una sorta di tassa invisibile che non di rado viene traslata nei prezzi delle merci al consumo. C’è, infine, un ultimo grande pericolo che le autrici denunciano. È quello rappresentato dalla crescita nel capitalismo attuale di un potere senza responsabilità, perché i consulenti non possono e non vogliono rispondere delle conseguenze per i loro consigli che sono sempre più sostitutivi e non sussidiari alle decisioni delle imprese. Quindi non sta entrando in crisi solo l’economia ma – come ripetono molte volte Mazzucato e Collingon – è l’intero impianto democratico in sofferenza.