venerdì 1 novembre 2024
La testimonianza di Ernesto Balducchi, ex brigatista: «In carcere a San Vittore il cappellano don Melesi mi portò un'immagine di Cristo con la lista dei compagni caduti e si accese la speranza»
Il cardinale Carlo Maria Martini in visita ai detenuti di San Vittore, a Milano

Il cardinale Carlo Maria Martini in visita ai detenuti di San Vittore, a Milano - Fotogramma

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Ci sono accadimenti importanti, a volte persino decisivi, che scaturiscono da episodi solo apparentemente piccoli e che qualcuno potrebbe giudicare insignificanti, ma diventano veicoli di significati profondi e destinati a lasciare un segno nella storia. Come l’episodio che andiamo a raccontare. Ottobre 1983, nel primo raggio del carcere milanese di San Vittore è rinchiuso un folto gruppo di detenuti appartenenti all’area dell’antagonismo, accusati di costituzione di banda armata e di numerose rapine e attentati. L’Italia sta lasciandosi alle spalle gli anni di piombo, ma per coloro che ne sono stati i protagonisti ci sono ancora molti conti da saldare con la giustizia. Da tempo e in più di un’occasione il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo della città che per anni era stata teatro di attentati e di efferati delitti, era intervenuto sul tema delle carceri e sulla condizione delle persone detenute, e non a caso nel 1981 aveva scelto proprio San Vittore come prima tappa della visita pastorale nella diocesi ambrosiana.

Ernesto Balducchi

Ernesto Balducchi - -

Ernesto Balducchi - leader dei Comitati Comunisti Rivoluzionari, una delle formazioni che animavano la galassia della lotta armata, a quell’epoca detenuto in quel carcere - ricorda: «In più di un’occasione Martini aveva sottolineato la necessità di “aprire spiragli di luce” nel buio della condizione carceraria, di riconoscere la dignità di persone a tutti i ristretti e di costruire occasioni di incontro e di dialogo anche con chi, come noi, aveva rivendicato la necessità di un conflitto con i poteri dello Stato. In particolare mi aveva impressionato un intervento sulla dimensione sociale del peccato e sulla sua relazione con le condizioni di ingiustizia che possono portare a ribellarsi a quelle condizioni. Da bambino avevo ricevuto un’educazione cristiana, avevo anche frequentato per cinque anni il seminario minore del Pime a Milano, ma poi mi ero incamminato su altre strade fino ad aderire al marxismo e in seguito alla lotta armata. Durante la detenzione era nato un rapporto di amicizia con don Luigi Melesi, cappellano a San Vittore, che periodicamente veniva nel nostro reparto a celebrare la messa, alla quale peraltro partecipavano in pochi ma che spesso diventava un’occasione per dialogare. Era l’ottobre del 1983, mancavano pochi giorni alla commemorazione dei defunti, e in una conversazione con lui gli dissi: “Anche noi abbiamo i nostri morti da ricordare, i compagni caduti negli scontri a fuoco con le forze dell’ordine o con gli estremisti di destra”. Mi chiese un elenco di quelle persone, e pochi giorni dopo mi consegnò un pacchetto di immaginette che recavano su un lato l’immagine di Cristo crocifisso e sull’altro i nomi che gli avevo dato. Non me l’aspettavo: fu un gesto significativo all’interno di un rapporto che si era consolidato nel tempo, mi fece capire che in una stagione in cui sembrava impossibile qualsiasi forma di dialogo con le istituzioni c’era qualcuno che ci considerava uomini e donne da ascoltare e con cui parlare, si riconosceva dignità di persone anche a chi aveva sbagliato. Fu come una fiammella che si accendeva, un pertugio che si apriva davanti a noi, un piccolo segno di speranza a cui ne seguirono altri, molto significativi, che portarono a scelte radicali».

L'immagine di Cristo crocifisso donata da don Melesi ai carcerati di San Vittore

L'immagine di Cristo crocifisso donata da don Melesi ai carcerati di San Vittore - -

Il retro dell'immaginetta donata da don Melesi ai carcerati di San Vittore con i nomi delle persone morte

Il retro dell'immaginetta donata da don Melesi ai carcerati di San Vittore con i nomi delle persone morte - -

Passano poche settimane e il cardinale Martini celebra la messa di Natale a San Vittore, alla quale il gruppo dei detenuti politici non può partecipare per motivi di sicurezza. Dopo la funzione don Melesi propone al vescovo di incontrarli nella sezione speciale in cui erano rinchiusi, alla presenza del direttore del carcere e dal comandante degli agenti di polizia penitenziaria. Un incontro tanto breve quanto intenso e carico di significati. Trovandosi al cospetto del vescovo, “l’Ernesto” - come Balducchi veniva familiarmente chiamato - gli consegna una copia della “Storia della colonna infame”, in cui Manzoni racconta di persone che ai tempi della peste a Milano si accusavano anche di colpe non commesse pur di convincere i giudici e di non venire sottoposti a torture.

«Noi avevamo maturato la decisione di assumerci pubblicamente le nostre responsabilità e di abbandonare la lotta armata ma senza coinvolgere e fare arrestare altre persone, come esigeva la magistratura. In quel momento un detenuto di Prima Linea lanciò a sorpresa una proposta: “Eminenza, noi a Messa non c’eravamo, diciamo almeno un Padre nostro insieme? E così andò. Era presente anche una persona che non conoscevo - ricorda Balducchi -. Aveva le lacrime agli occhi, rimasi colpito dalla sua commozione e qualche giorno dopo con mia grande sorpresa venni a sapere da don Melesi che si trattava di Giovanni Testori, che aveva accompagnato il cardinale. Consegnai al cappellano una lettera per lui allegando la copia di un documento che avevamo presentato pochi giorni prima nel processo a nostro carico, nel quale riconoscevamo il fallimento della lotta armata, ci assumevamo la piena responsabilità dei nostri gesti anche di fronte ai familiari delle vittime e chiedevamo di poter risarcire tutti in modi socialmente utili». Testori scrisse un lungo e provocatorio articolo sul Corriere della Sera intitolato “Una lettera dal carcere: la nostra storia sia di lezione”, riportando ampi stralci del documento e sottolineando la necessità di ascoltare la disponibilità al dialogo che arrivava da quelle celle.

Balducchi ricorda che «l’articolo diede alla nostra decisione una grande visibilità. Considerandolo come l’ulteriore tappa di un percorso che si era andato costruendo con il cappellano di San Vittore e sommandolo all’episodio per noi molto significativo dell’immaginetta con i nomi dei compagni morti, ai reiterati interventi di Martini sulle carceri e alla sua visita nel giorno di Natale, ci convincemmo che avevamo trovato nella Chiesa milanese una sponda con cui dialogare, e così maturò l’idea di un gesto che testimoniasse nei fatti le intenzioni che avevamo espresso a parole. Ci eravamo resi conto che per realizzare certi ideali di giustizia avevamo scelto gli strumenti sbagliati, il nostro progetto politico era fallito, la realtà andava da un’altra parte. Fu così che la scelta morale e politica di noi detenuti fu accettata dai compagni ancora liberi che arrivarono alla decisione di consegnare le armi che detenevano, scegliendo come destinatario non le istituzioni statali, nelle quali non avevamo trovato interlocutori interessati al cambiamento che era maturato in noi, ma la Chiesa. Volevamo lanciare un segnale concreto a tutti, rivolgendoci a chi era disponibile ad accettarlo».

Il 13 giugno 1984 vengono recapitate alla segreteria dell’arcivescovo tre borse piene di kalashnikov, bombe a ma- e fucili, un vero e proprio arsenale radunato tra i compagni in libertà che le avevano in custodia. Con le armi c’è una lettera indirizzata a Martini e firmata “suo in Cristo, Ernesto Balducchi”, dove si sottolinea che, a fronte di un documento di 36 magistrati in cui si evidenziavano i pericoli di un’imminente ripresa della stagione del terrorismo, «la Chiesa annuncia maturi i tempi di una nuova riflessione sulla fraternità, in Cristo e nell’umanità, in preparazione del convegno su “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. (…) Da lei sentiamo rappresentata la sola ipotesi che elida i costi sociali delle trasformazioni e che possa, perciò, legittimamente ricevere la nostra spontanea rinuncia alle armi. (…) Questo è il segnale che affidiamo alle sue mani per la ripresa del dialogo, interrotto dalle nostre gesta nel clima di scontro degli anni scorsi, tra tanti giovani e “le forze per la vita” di questa città».

La lettera viene pubblicata integralmente da Avvenire. Si verrà poi a sapere che il “corriere” della consegna era stato don Melesi, accompagnato da un militante rimasto sconosciuto. La “resa delle armi” segnerà un punto di non ritorno nel dibattito sul terrorismo che in quegli anni aveva investito l’Italia e testimoniava in maniera altamente simbolica che si stava chiudendo la stagione dell’emergenza. Quell’immaginetta con il Crocifisso e i nomi dei compagni morti consegnata ai detenuti - che don Melesi farà stampare anche l’anno successivo aggiornandola con altri nomi - aveva acceso una luce nel buio del carcere e lasciato un segno indelebile. Nel 1985 “l’Ernesto” viene scarcerato per decorrenza dei termini, poi ottiene l’affidamento ai servizi sociali e la libertà vigilata fino al compimento dei 10 anni della condanna. Avvia un’agenzia di consegne rapide che dà lavoro a dieci persone, tra cui alcuni ex compagni di militanza. Per offrire ad altri una possibilità di riscatto, nel 1986 è tra i fondatori di “Incontro e Presenza”, un’associazione di volontari che opera nelle carceri per offrire compagnia alle persone detenute e aiutarle nel reinserimento sociale. «Il lavoro è uno strumento fondamentale per sentirsi protagonisti dell’esistenza e per dare a tutti una possibilità di ripartenza. Anche chi ha commesso gravi reati, non deve vivere schiacciato dal suo errore».

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