Ignazio Silone
La letteratura è una straordinaria fonte per gli economisti e per i cultori di economia. Quando gli scrittori hanno dovuto parlare, descrivere e immaginare la vita hanno spesso dovuto incontrare lavoro, ricchezza, povertà, monete e mercati, perché, semplicemente, sono questi i luoghi dove le persone vivono, soffrono, amano, sognano. In questa nuova serie Luigino Bruni continua il viaggio attraverso alcuni classici della letteratura, in cerca di nuove parole per capire e raccontare il nostro tempo, la nostra economia, la società, l’anima. Silone, Carlo Levi, Kafka e altri ancora saranno i compagni di strada di questo originale percorso, pieno di sorprese.
Per ordine del podestà sono proibiti tutti i ragionamenti (Ignazio Silone, Fontamara, p. 89)
Se ci bastasse la realtà non ci sarebbe bisogno della letteratura. Siamo infinito, i romanzi accorciano la distanza tra noi e l’eternità; siamo desiderio, gli scrittori aumentano le cose desiderabili perché i sogni a occhi chiusi sono troppo poco. La gioia si nutre anche dei mondi creati dalla letteratura, la nostra giustizia cresce mentre ci indigniamo leggendo un romanzo, abbiamo imparato la pietas dai genitori e dagli amici ma anche dalle fiabe e dai racconti degli scrittori. Non saremmo stati capaci di immaginare la terra promessa della democrazia, della libertà e dei diritti se non l’avessimo incontrata nei miti e nei romanzi, intravista in una poesia. Abbiamo conosciuto Dio perché la Bibbia ce lo ha insegnato attraverso racconti, e le parole umane hanno custodito un’altra Parola. Tutte le fedi finiranno nel triste giorno in cui smetteremo di scrivere storie, e di raccontarcele.
«Ignazio Silone ha oggi la sua maturità coronata e sovranamente fissata in opere d’arte che sono al medesimo tempo il suo “canto delle creature” e la sua visione apocalittica della nuova spiritualità democratica... Noi pensiamo di far cosa quanto mai tempestiva, dando qui in appendice al nostro settimanale, il primo suo romanzo che diede al mondo internazionale la sensazione acuta della sofferenza del popolo italiano in regime fascista» (7 marzo 1945). Così scriveva Ernesto Buonaiuti introducendo la pubblicazione dei primi capitoli di Fontamara nel primo numero del suo settimanale Il Risveglio. Buonaiuti, il grande e amato professore di storia del cristianesimo a La Sapienza di Roma, tra i dodici accademici che non giurarono al regime fascista, sacerdote scomunicato dalla Chiesa cattolica per le sue tesi moderniste – stiamo ancora aspettando la sua riabilitazione, forse in tempo di Giubileo. Fontamara fu scritto da Ignazio Silone (Secondino Tranquilli) nei primi mesi del 1930 durante il suo esilio svizzero. Fu pubblicato dapprima in tedesco (Zurigo, Oprecth & Helbing, aprile 1933, traduzione di Nettie Sutro), cui seguì una prima edizione in lingua italiana (Zurigo-Parigi, novembre 1933) ristampata a Londra nel 1943 (J. Cape, con data 1933). La prima edizione in Italia arrivò solo nel 1947 grazie al piccolo editore romano Faro, e infine nel 1949 con Mondadori. Il suo successo internazionale fu notevole, ma per essere stampato in Italia si dovette attendere il crollo del fascismo.
Nel 1930 Silone si trovava da due anni in Svizzera, tra Zurigo e Davos, per il suo impegno clandestino per il Partito comunista che aveva contribuito a fondare nel congresso di Livorno nel 1921. Sempre nel soggiorno svizzero iniziarono i suoi dissidi con Togliatti per le sue posizione anti-staliniane, cui seguirà l’espulsione dal partito nel 1931. In sanatorio per curare una malattia respiratoria (apparente tubercolosi), depresso, angosciato per la situazione di suo fratello Romolo, l’unico della sua famiglia che nel 1915 si era salvato con lui sotto le macerie del terremoto di Pescina, che era stato messo in prigione dal regime fascista, torturato e poi ucciso nel 1932, Silone dedica Fontamara a suo fratello e a Gabriella Seidenfeld, la sua compagna conosciuta nel 1920 dalla quale si stava separando sentimentalmente. Fontamara è dunque il distillato di anni terribili, il frutto di una metamorfosi molto dolorosa. Una profondissima crisi esistenziale che generò il capolavoro. Fontamara non è soltanto un romanzo che ha svelato all’Italia e al mondo l’anima profonda del mondo contadino meridionale, e non è neanche soltanto un classico dell’anti-fascismo. Fontamara è soprattutto un capolavoro letterario, un romanzo stupendo, una di quelle opere che forse solo il grande dolore sa generare. Silone, dirà più tardi, trovò la sua salvezza nella letteratura, superò quella notte buissima diventando scrittore – e che scrittore! Ci sono molti modi per provare a salvarsi dai buchi neri della vita, la scrittura e l’arte sono tra i più potenti e comuni, perché si esce dal buco imparando a volare.
Per capirlo e gustarlo c’è comunque bisogno di svolgere alcuni esercizi etico-spirituali essenziali. Il primo è quello più difficile, forse impossibile ma davvero necessario: provare a dimenticare i nostri comfort, il culto delle merci, gli uffici e gli incentivi, e recarci con l’anima nel mondo di Fontamara: «Prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l’insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo stesso ritornello. Sempre. Gli anni passavano, gli anni si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuovo da capo. Ogni anno come l’anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente. Ogni generazione come la generazione precedente » (1951, p. 9). È il regno di Sisifo, ma diversamente dal Sisifo di Albert Camus, il Sisifo di Silone non è felice: «A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato... sembra un villaggio come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odii, invidie, lotte, disperazioni» (p. 8). Nella prima edizione de Il Risveglio, al termine di questo paragrafo Silone aveva aggiunto: «Lo spettacolo della vita vi è più scarno, più visibile e comprensibile, e nulla di essenziale vi manca», una frase che poi scomparve nelle edizioni successive.
Il secondo esercizio d’immaginazione spirituale riguarda il mondo contadino. Quello di Silone, come quello di Carlo Levi (che vedremo), è un mondo che ho conosciuto anche io, sfiorandolo grazie al rapporto con i miei nonni lavoratori della terra ascolana. È molto probabile, se non certo, che la mia generazione sia l’ultima erede morale di millenni di storia contadina, fatta di cristianesimo, di magia, di moltissimi bambini vivi e morti, di tanto amore popolare e di tantissimo dolore di tutti, delle donne di più. Quel mondo sempre uguale nei suoi tratti essenziali è stato il mondo della mia infanzia. Ero ancora ragazzo, ma anche io ho visto quel Sisifo contadino, poco mito e tutta carne. È parte essenziale della mia anima, dove lo custodisco gelosamente. Fontamara è il mio paese.
Quello era un mondo italiano ma dove si parlavano altre lingue: «A nessuno venga in mente che i fontamaresi parlino l’italiano... La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta» (p. 15). Quando ricordo o sogno i miei nonni, per provare a entrare ancora in sintonia con il loro cuore devo sintonizzarmi con il dialetto, perché solo in quella lingua potevano e possono dirmi le parole giuste e perfette, raccontare le storie più belle con una eloquenza e ricchezza che diventava subito goffaggine e disagio non appena dovevamo passare all’italiano (l’italianizzazione dei contadini è stata anche violenza): «Tuttavia, se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. È un’arte fondamentale. È quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia» (p. 16). Forse anche il mio amore per le parole è nato ascoltando i racconti delle mie zie, o quelli lunghissimi di “Caterina vecchia” che stava con noi fratellini nelle lunghe sere d’inverno. Questa serie di articoli che oggi inizia è dunque anche un contributo alla custodia della memoria di un mondo che ho conosciuto e che sta finendo insieme alle sue storie: chissà se i nostri figli saranno ancora capaci di comprendere e commuoversi per Silone o Levi.
Infine, il terzo esercizio è semantico, e riguarda la parola-chiave di Fontamara: cafone. Scrive, tra parentesi, Silone: «(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, forse anche di onore)» (p. 10). Si entra in Fontamara se riusciamo a raggiungere ora quel paese di domani dove “il dolore non è più vergogna”; lì poniamo la tenda e con Silone usiamo il nome cafone come “nome di rispetto e di onore”. E così neghiamo tutte le ideologie meritocratiche che stanno allontanando quel paese di domani, introducendo ogni giorno nuovi argomenti per convincerci che il povero deve vergognarsi della sua povertà perché è colpevole della propria sventura – e mentre ci convince di questa menzogna, il capitalismo si libera da ogni responsabilità. Fontamara non è un “borgo”, una parola entrata nei pertugi del nostro tempo banale che ha perso contatto con l’anima dei luoghi veri. A Fontamara «i contadini non cantano... tantomeno (e si capisce) andando a lavoro. Invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira e perfino la devozione religiosa, bestemmiano. Ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due o tre santi di loro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce » (p. 14). Non si entra nel mondo dei poveri se si ha paura delle bestemmie e delle maledizioni, perché sono, spesso, paradossali parole d’amore. In Fontamara l’economia è una nota costante, declinata come terra, lavoro, ossessione del “pagare”, miseria, tasse, il potere. L’ingiustizia sociale, centrale nel romanzo, è anche e soprattutto una ingiustizia economica, quella del latifondo e dell’”impresario” appoggiato dalle istituzioni, dai piccoli proprietari e dal clero (don Abbacchio). E arriva fino alla morte di Berardo, nelle pagine forse più intense del romanzo.
Fontamara è una storia di riscatto sociale fallito, di liberazione non riuscita. I cafoni truffati dalla deviazione del ruscello per portare acqua all’impresario restano poveri e truffati dall’inizio alla fine del romanzo. Fontamara sembra un eterno venerdì santo, con qualche squarcio di sabato, senza domenica. E in questo somiglia a tanti altri grandi romanzi, dove Fantine vende e i suoi denti e muore senza risorgere, o alla Bibbia dove l’esodo e l’esilio continuano oltre il Mar Rosso e dopo l’editto di Ciro, perché l’arameo errante non ha mai smesso di errare. La sola risurrezione che salva è quella che inizia sul Golgota. E così, più Silone ci conduce negli abissi del dolore dei cafoni, più noi vi intravvediamo una strana bellezza e una luce luminosa – non riusciremo a sollevare i molti “cafoni” dalle loro miserie finché non impareremo la bellezza nascosta dentro la povertà, e a guardare i poveri con onore e rispetto.
(1 - continua)