«Finestre» di Doriano Solinas - Archivio
Da tempo un vasto movimento mondiale chiede di ripensare la nostra economia in una prospettiva di lentezza, recupero, razionalità. In una parola: di sostenibilità. Per il bene della Terra, del nostro clima e dei nostri oceani tanto quanto per il bene della nostra salute, del nostro equilibrio interiore, delle nostre relazioni affettive. Ma dev’essere chiaro: il cambiamento proposto dai fautori della sostenibilità non ha niente a che vedere con i provvedimenti d’urgenza che il coronavirus ci ha costretto ad adottare.
Il coronavirus ci ha imposto il lockdown, la sostenibilità ci propone la transizione. Il lockdown è la chiusura forzata di attività produttive, la limitazione improvvisa dei nostri spostamenti, lo stravolgimento repentino delle nostre abitudini. La transizione, invece, è il cambiamento graduale e programmato dell’economia, dell’organizzazione sociale, degli stili di vita. In altre parole, il lockdown è sinonimo di coercizione, rottura, incertezza.
La transizione è sinonimo di programmazione, flessibilità, sicurezza. È la capacità di avviare un processo di trasformazione senza scossoni e senza vittime, semplicemente perché è programmato e attuato con la gradualità e gli accorgimenti che servono per garantire un cambiamento dolce. La sfida, oggi, è come trasformare la crisi del lockdown dal quale stiamo uscendo per gradi, e che ancora incombe, in opportunità di transizione.
Possiamo cominciare da ciò che questa crisi ci sta insegnando. A livello personale abbiamo imparato che si vive bene anche senza gli spostamenti domenicali che spesso si trasformano in giornate di stress passate in coda ai caselli autostradali. Rimanere a casa in famiglia fa riscoprire la bellezza dello stare insieme, di sapersi unire attorno alla preparazione di un dolce, di sapere organizzare un gioco da tavolo, di sapere fare le lezioni di scuola tutti assieme, di sapere perfino dormire un’ora di più la mattina per affrontare la giornata con più calma e serenità.
A livello economico abbiamo imparato quanto sia importante ritrovare il senso di casa, ossia una rivalutazione dell’economia locale. Ci avevano detto che la regola aurea è quella della teoria dei vantaggi compa-rati, che significa concentrarsi sulle attività che sappiamo svolgere meglio, accettando di comprare dagli altri Paesi ciò che essi sanno produrre a costi più bassi. In fin dei conti, è la logica della globalizzazione che ha finito per eleggere la Cina e pochi altri Paesi emergenti in produttori esclusivi di manufatti ad alto impiego di mano d’opera. E se fino a ieri pensavamo che si trattasse solo di scarpe, giocattoli e computer, con l’emergenza coronavirus abbiamo appreso che noi non produciamo più neanche le mascherine e vari altri prodotti sanitari.
Così abbiamo imparato quanto sia imprudente basare le nostre scelte esclusivamente sul criterio monetario. Prima o poi tutte le scelte a senso unico presentano il conto, perché la vita non è mai fatta di un solo elemento, ma di tanti aspetti che devono stare in equilibrio fra loro. E allora se teniamo in conto anche le esigenze della sicurezza, della salute, dell’autonomia, dell’occupazione, del risparmio energetico, della riduzione di anidride carbonica, inevitabilmente rivalutiamo l’economia locale. Che non vuol dire rinchiudersi nell’autarchia e, tanto meno, avventurarsi in guerre commerciali, ma considerare la dimensione locale come prima opzione produttiva. Il che impone un cambio di regole da parte dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Da questa emergenza abbiamo anche imparato come sia possibile distinguere fra attività essenziali e non essenziali. È importante saperlo fare perché se vogliamo produrre meno rifiuti e contenere l’uso di materie prime, dovremo porre un freno al consumismo sfrenato, imparando a eliminare il superfluo. Fino a ieri sembrava che il superfluo fosse un concetto solo soggettivo su cui è impossibile trovare una convergenza collettiva. Ora non possiamo più dirlo: messi alle strette sappiamo distinguere l’essenziale dal resto. Il problema caso mai è quanto ci sentiamo motivati a dover scegliere: di fronte al coronavirus, che espone a rischio di morte, la convergenza è stata immediata. Magari se parliamo di essenzialità per evitare i cambiamenti climatici le discussioni si fanno infinite. Ma non perché ci sfugge la differenza fra essenziale e superfluo, ma perché non abbiamo ancora assunto i cambiamenti climatici come un’emergenza.
Una terza lezione, questa tutta positiva, che traiamo dai cambiamenti imposti dall’emergenza da pandemia è che siamo capaci di comunità. Lo dimostrano non solo i canti collettivi o addirittura le tombolate che sono state organizzate tramite balconi, ma soprattutto lo slancio con cui si è risposto alle richieste di medici e altri volontari, avanzata dalla Protezione civile. Si tratta di segnali importanti, perché dimostrano come sia radicata tra la nostra gente la centralità delladimensione comunitaria. Quando capiamo che i limiti del pianeta e la responsabilità verso le generazioni future ci impongono di scegliere è fondamentale avere chiaro che i bisogni non sono tutti uguali, alcuni sono più importanti di altri perché rispondono ad esigenze vitali sotto il profilo fisico, psichico, sociale.
L’aria per respirare, l’acqua per bere e lavarsi, il cibo per nutrirsi, il vestiario per coprirsi, il tetto per ripararsi, il fuoco per scaldarsi e cucinare, ma anche l’insegnamento per apprendere, il farmaco per curarsi, il treno per viaggiare, il telefono per comunicare, sono necessità di cui non possiamo fare a meno perché hanno a che fare con la nostra dignità personale. Per questo sono elevati al rango di diritti e quindi assegnati all’economia di comunità. Ne consegue che quando prendiamo consapevolezza di dover limitare produzione e consumo, ci orientiamo automaticamente verso due scelte: da una parte diamo priorità ai bisogni fondamentali, dall’altra valorizziamo un’economia che è “pubblica”, cioè capace di garantire i bisogni a tutti perché funziona sul principio della solidarietà e non della ricerca del profitto.
Nella nostra società moderna la forma di solidarietà prediletta è quella fiscale, che però ha il difetto di fare dipendere le risorse a disposizione della collettività dall’andamento dell’economia generale. Se l’economia va bene, la comunità incassa tanto e garantisce molti servizi. Se invece va male, incassa poco ed è meno presente, proprio quando ci sarebbe più bisogno di lei. Il punto è che non abbiamo bisogno della solidarietà collettiva quando siamo in salute e abbiamo un buon lavoro, ne abbiamo bisogno quando siamo malati e disoccupati. Per questo la recessione ci fa tanta paura. Una soluzione per permettere all’economia pubblica di funzionare adeguatamente anche nelle circostanze avverse potrebbe essere quella di farla funzionare col lavoro diretto dei cittadini. Che vorrebbe dire tassare il tempo anziché il reddito. Cioè: potenziare il volontariato, esattamente come facciamo ogni volta che ci troviamo in situazione di calamità.