Già Machiavelli ammoniva di non fidarsi troppo delle coalizioni militari, che riservano spesso delusioni, se contrapposte a un nemico molto coeso. Che dire allora di quanto avviene oggi in Medio Oriente, con il proliferare dei «blocchi» in campo, coalizioni militari diverse, ma tutte formalmente impegnate "a combattere" le milizie del sedicente califfo al-Baghdadi? Un florilegio di alleanze con una potenza di fuoco teorica che dovrebbe annichilire con rapidità ogni nemico. Subito dopo il crollo delle Forze armate irachene e l’avanzata di Daesh nell’estate del 2014 si era formata una variegata coalizione con che ha bombardato le forze jihadiste, senza troppa convinzione e senza una strategia politica comune. Più recentemente, si sono mosse Turchia, Russia e Francia, con quest’ultima che ha triplicato l’intensità dei propri sforzi militari dopo i sanguinosi attentati di Parigi. Infine, è di ieri la nascita di una nuova coalizione destinata a combattere il terrorismo, voluta dall’Arabia Saudita e composta da ben 34 Stati a larga maggioranza islamica.Un’alleanza islamica per combattere il terrorismo. Evviva, si potrebbe dire. Quale miglior risposta a chi semina il terrore abusando del nome della religione islamica che una coalizione di Stati islamici? Peccato che dietro la patina della retorica di questa nuova "Santa Alleanza" sunnita la realtà sia ben diversa. L’Arabia Saudita, così come la Turchia, il Qatar, e gli Emirati – tanto per fare qualche nome –, ha molto da farsi perdonare in tema di proliferazione del radicalismo islamico nel Levante. Così a un primo livello, queste operazioni rappresentano il tentativo di "ripulirsi" l’immagine e ridurre il sostegno che dentro quei Paesi ancora esiste (fra cittadini privati, organizzazioni religiose, corpi intermedi dello Stato) verso l’estremismo sunnita. Ma, soprattutto, esse sono il tentativo di continuare a sostenere i propri obiettivi geopolitici. Ossia la lotta contro i curdi del Pkk da parte della Turchia (che li bombarda pesantemente) e la voglia di garantirsi un ruolo in Iraq e Siria da parte della monarchia di Riad. La quale, in passato, ha scommesso tutto sulla sconfitta di Assad e la vittoria delle opposizioni sunnite, ma ha perso malamente. Da qui la ripresa di un nuovo attivismo politico, esemplificato da questa larga coalizione militare islamica.Se si scorre la lista degli alleati dell’Arabia Saudita, stride tuttavia la mancanza dei governi di Iraq e Iran. Il primo è il governo che dovrebbe assentire alle operazioni militari sul proprio territorio da parte dei "fratelli musulmani", ma che è totalmente inviso ai sauditi, dato che è guidato da arabo-sciiti. Mentre dal punto di vista miliare è assurda la mancanza di Teheran, finora l’unica potenza regionale ad avere uomini sul campo sia in Siria sia (soprattutto) in Iraq, vuoi direttamente con i pasdaran, vuoi con le milizie sciite, artefici di numerose vittorie sul campo. Un’assenza dovuta alla fortissima ostilità e alla rivalità fra l’Arabia Saudita e lo stesso Iran. Infine, l’attivismo saudita va letto anche guardando all’evoluzione della situazione libica, ove alla crescita di Daesh si associano le interferenze e i regolamenti di conti – fatti "per procura" in Libia – fra i diversi Paesi arabi.Vista con sguardo profondo, questa nuova iniziativa rischia di complicare invece che di facilitare la lotta al terrorismo. Fa emergere, infatti, la mancanza di una reale strategia internazionale condivisa che prepari uno scenario politico per il "dopo" della Siria e la consolida. Ogni azione militare ha senso solo se vi è una
road map verso la stabilizzazione e la pace, cioè un itinerario trasparente e condiviso verso una civile ricompozione in Siria e Iraq una volta sconfitto il califfato e idee guida per una transizione che fermi la catastrofe umanitaria e l’infezione jihadista. Altrimenti, continuare a bombardare in ordine sparso e a rifiutare un compromesso che scontenti tutti ma non umili nessuno – nascondendo i propri obiettivi e interessi dietro la retorica della «lotta al terrore» – significa solo creare le premesse per nuove divisioni fra finti alleati e per nuovi massacri fra le popolazioni.