Prossimamente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si pronunceranno sulla esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche. La decisione prende spunto da un docente, vicino alla Unione atei e agnostici razionalisti (Uaar). Per le sue ore d’insegnamento rimuoveva il Crocifisso, in disaccordo con la volontà degli studenti, favorevoli in maggioranza alla esposizione dello stesso in aula. La rimozione del Crocifisso avveniva anche in contrasto con un provvedimento del preside, il quale chiedeva ai docenti il rispetto della decisione degli studenti. Per il suo comportamento, al docente era stata irrogata la sanzione della sospensione di 30 giorni da funzioni e stipendio. La sanzione è stata ritenuta legittima tanto in primo grado, quanto in appello. Giunta la questione in Cassazione, la sezione lavoro ha richiesto una decisione in merito delle Sezioni unite. Si ipotizza che l’esposizione del Crocifisso comporti una lesione della libertà d’insegnamento e di quella di coscienza del docente, dando vita a una discriminazione a carico dello stesso.
Si tratta, dunque, dell’ennesimo tentativo di rimuovere, in via giurisdizionale, il Crocifisso dai locali pubblici e, in particolare, dalle aule scolastiche, imponendo per tale via la soluzione del cosiddetto muro bianco. Per le scuole i precedenti più importanti finora erano stati due, entrambi promossi da una madre che riteneva lesiva della libertà di educazione l’esposizione del Crocifisso. E com’è noto, sono falliti entrambi. Il primo tentativo, legato all’interpretazione della Costituzione italiana, si è infranto sulle decisioni dei giudici amministrativi (Tar Veneto e Consiglio di Stato) che hanno ritenuto compatibile con il cosiddetto 'principio di laicità' l’esposizione del Crocifisso, in quanto non solo simbolo religioso, ma anche culturale, espressivo di valori sui quali si fonda anche la Carta fondamentale della nostra Repubblica.
Il secondo tentativo si è scontrato con la decisione della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Essa, nel 2011, aveva ribaltato una precedente sentenza di una sezione della stessa Corte: per il giudice di Strasburgo, l’esposizione del Crocifisso non lede la libertà d’educazione, in quanto esso non spiega influenza sull’insegnamento svolto nelle classi, che rimane aconfessionale.
Fallito il tentativo di ancorare sulla Costituzione e sulla Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) la rimozione del Crocifisso, si prova ora una terza strada, basata soprattutto sul diritto dell’Unione Europea, nelle sue prescrizioni antidiscriminatorie. La sezione lavoro della Cassazione prova a sostenere che questa vicenda sia diversa dalle precedenti, giacché ora si discute della libertà di non credere e di quella di coscienza, come pure della libertà d’insegnamento, mentre in passato la questione era stata affrontata, come detto, dal punto di vista della libertà di educazione.
In realtà, le considerazioni a fondamento della decisione della Corte di Strasburgo valgono anche per il caso del docente: se il Crocifisso non è in grado d’incidere sul minore perché, come simbolo passivo, non influenza in modo confessionale l’insegnamento, tale ragionamento vale (ancor più) per l’adulto che impartisce l’insegnamento, e cioè il professore, come evidenziato dal giudice di primo grado.
Anche per la presunta discriminazione del professore hanno rilievo le considerazioni di Strasburgo sulla natura del simbolo religioso. Il professore, infatti, non è stato oggetto di un provvedimento sanzionatorio per aver espresso la sua posizione in materia religiosa e di coscienza; giustamente nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Nemmeno (ovviamente) è stato richiesto un atto di approvazione, di ossequio verso il Crocifisso, che avrebbe potuto ingiustamente porre su un piano di differenziazione, discriminandolo, il non credente, contrario a compiere tale atto. La questione sorge, invece, per la mancata osservanza di un provvedimento del superiore gerarchico, cioè del preside, che chiedeva il rispetto della volontà manifestata dagli studenti di esporre il Crocifisso.
Il problema allora si sposta dalla posizione del professore alla legittimità di questo provvedimento. In altri termini, poteva il preside accogliere la richiesta dei ragazzi senza discriminare coloro che non sono credenti, sia tra i docenti, sia tra gli studenti?
La risposta è positiva, come emerge tornando al significato della separazione tra potere temporale e autorità religiosa accolta nella Costituzione italiana: non un laicismo alla francese; ma una opportuna e doverosa separazione tra potere pubblico e autorità spirituale, che non si traduce, però, in un’ostilità nei confronti delle manifestazioni religiose nella sfera pubblica, come il Tar Veneto e il Consiglio di Stato avevano già opportunamente e chiaramente ribadito.
Costituzionalista, Università Europea di Roma e vice presidente del Centro Studi Rosario Livatino