Essere cristiani nei Paesi a maggioranza islamica è difficile, quasi invariabilmente i credenti vi sono sottoposti a soprusi giuridico-amministrativi, all’emarginazione, a una persecuzione magari non dichiarata, non apertamente programmatica, ma non per questo meno dolorosa, odiosa, talvolta letale. Per esempio in Iraq, e in misura crescente, i cristiani oltre alle angherie rischiano sovente la vita. Soltanto negli ultimi due giorni tre fedeli sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco nella settentrionale Mosul, gettando nel dolore e nello sgomento, e non soltanto in quella regione, la minoranza cristiana, oggetto di frequenti prepotenze, sequestri di persona, attentati mortali e impuniti. Le violenze si inanellano da almeno cinque anni, ed hanno spinto almeno 2.500 famiglie ad abbandonare Mosul per trovare rifugio in altre zone del Paese, ma soprattutto all’estero. La situazione continua ad essere instabile in tutto l’Iraq, e le forze di sicurezza non appaiono in grado di garantire la tutela dei cittadini in alcuna parte del Paese (nemmeno a Baghdad), ma particolarmente precaria è la condizione nel Nord, dove i cristiani risultano spesso «vittime collaterali» (come dice un recente rapporto di «Human Rights Watch») nel conflitto fra curdi e altre etnìe per il controllo del territorio. La recrudescenza degli attentati (che ricordano per viltà ed efferatezza quella che meno di due anni fa provocò la morte di almeno 40 cristiani, tra i quali il vescovo caldeo di Mosul Faraj Raho) fa temere che si sia riaperta una campagna di omicidi sistematica, tesa a intimidire gli avversari veri o presunti e a destabilizzare ulteriormente il quadro socio-politico in vista delle elezioni generali del prossimo 7 marzo. La «caccia al cristiano» diventa così, sullo sfondo di tradizionali conflitti interetnici e interreligiosi (ricordiamo il maggiore, ossia quello fra sunniti e sciiti) una sorta di orrendo ritornello, riproposto puntualmente alle soglie o nel corso di ogni importante appuntamento nazionale. Ma anche stavolta, a rischio della propria stessa vita, i pastori cristiani esortano il proprio gregge a non disperdersi, a non lasciarsi intimidire. «I fedeli – dice per esempio l’arcivescovo di Kirkuk, Louis Sako – vadano a votare. Si deve avere il coraggio di far valere i propri diritti per il bene di tutto il Paese». «Occorre – aggiunge il vicario patriarcale caldeo di Baghdad, Shlemon Warduni – ricomporre una forte unità dei cristiani, se vogliamo che la nostra voce venga ascoltata e raccolta nella futura società irachena». Parole coraggiose, ma cariche di accorata preoccupazione da parte di pastori che più volte hanno denunciato il pericolo che i cristiani spariscano progressivamente dal Medio Oriente: proprio in Iraq, per esempio, essi erano il tre per cento della popolazione sotto Saddam Hussein, ora sono il due. «La situazione – ha detto un anno fa Warduni in visita in Italia – è tale che fa immaginare un disegno complessivo per svuotare il Medio Oriente dai cristiani». Nel frattempo la condizione dei cristiani non è migliorata, violenze come quelle degli ultimi mesi lasciano poco spazio all’ottimismo. Nell’attesa di un soccorso – nazionale e internazionale– che tarda a venire, i credenti (e potremmo anzi dire: i potenziali martiri) guardano alle prossime elezioni con la speranza che li aiutino a contare un poco di più; e che, più in generale, segnino l’inizio di una autentica maturità politica irachena e non l’avvio di una nuova, magari peggiore instabilità.