Riaperture, appelli, richieste di sgravi fiscali e di finanziamenti straordinari: tutti i provvedimenti che in questi giorni vengono invocati a favore della cultura – dal teatro ai musei, dall’editoria alla lirica, dal cinema ai festival di ogni tipo – rispondono a un oggettivo criterio di urgenza. C’è da sventare il rischio che la recessione travolga un settore molto ampio, che già prima dell’emergenza coronavirus denunciava fragilità e incertezze. Ma un piano di intervento economico, per quanto articolato e imponente, avrebbe scarsa efficacia se prima non ci si accordasse su quello che la cultura può effettivamente fare per il bene del Paese. Non si tratta di riportare in servizio l’ambigua categoria del 'petrolio italiano' (che dà dell’esperienza culturale l’immagine statica di un patrimonio sedimentato, dal quale si può trarre vantaggio solo per via estrattiva), né di ripetere la pur nobile formula dell’'utilità dell’inutile', che di nuovo si presta a essere fraintesa, come se il discorso fosse sempre da spostare su un più piano più elevato rispetto alla quotidianità. Come se, per intenderci, la prosa del giorno coincidesse con l’'hosteria' che Niccolò Machiavelli descrive in una sua celebre lettera: un posto prosaico e chiassoso dove ci si ingaglioffisce «giuocando a cricca, a trich-trach» in attesa che, subentrata la poeticità della sera, ci si possa rivestire dei «panni reali e curiali» che soli si adattano alle buone letture.
Si esagera, ma non troppo. Per due motivi. Il primo, implicito nella citazione appena richiamata, è il riflesso condizionato per cui in Italia parlare di cultura significa parlare di cultura umanistica. Indispensabile oggi più che mai, ma non nell’accezione purtroppo ancora corrente, che pare aver recepito poco o nulla del dibattito internazionale sull’evoluzione delle humanitates in humanities, ossia in un sistema di criteri e di conoscenze da mettere in relazione alle istanze del presente e non di un passato ridotto ad alibi nostalgico. In questo senso si potrebbe affermare che anche in Italia, a dispetto di ogni superficiale orgoglio classicista, si avverte da tempo un difetto di umanesimo, che si traduce in difetto di elaborazione critica, di attitudine innovativa, di propensione alla complessità.
E con questo siamo al secondo motivo per il quale il nostro Machiavelli in caricatura è in fin dei conti plausibile. Se della cultura si continua a nutrire una concezione distaccata e libresca, ecco che la cultura è qualcosa che arriva sempre dopo, sempre alla sera. Alla fine dei processi, quando tutto è stato deciso e si può tutt’al più cercare di abbellire il già fatto. Ma la cultura non è la pianta d’appartamento che si compra una volta che la mobilia è stata sistemata. La cultura è sì una pianta, ma in un’altra accezione. È il tracciato dell’appartamento, è il progetto della casa che si sceglie di abitare. Sta all’inizio dei processi, non alla fine. Altrimenti non ha alcuna utilità, nemmeno quella dell’inutile. Altrimenti non riesce neppure a fare da ornamento.
Altrimenti, appunto. Per capire quali possano essere le conseguenze di una cultura vanamente idealizzata e concretamente mortificata basta guardare alla cronaca delle ultime settimane, durante le quali la generosità di molti non ha potuto nascondere - anzi, ha reso più evidente - la debolezza di un impianto generale che insiste nel tenere in subordine il pensare rispetto al fare, negando così al fare la qualifica di pensiero in azione (la cosiddetta 'intelligenza della mano') che originariamente gli compete. La pandemia ha portato alla luce, anzitutto, la già ricordata frattura tra le 'due culture', la scientifica e l’umanistica, su cui si soffermava sessant’anni fa Charles Percy Snow. Un Paese di scarsa cultura scientifica come l’Italia è pressoché condannato, sotto l’urto della calamità, a fare della scienza un feticcio, una fonte di certezze inappellabili, un’autorità indiscutibile anche nel momento in cui quella stessa autorità proclama la propria temporanea ignoranza (del Covid-19 non sappiamo ancora abbastanza e non sarà la moltiplicazione dei pareri ad accrescere la nostra conoscenza). La sintesi di questa confusione è offerta dal pregiudizio per cui 'i numeri non mentono'. Sinceri finché si vuole, neanche i numeri possono sottrarsi all’esigenza dell’interpretazione, che è esattamente ciò che sarebbe servito in questi mesi per evitare lo smarrimento – a tratti prossimo al panico – derivante dal quotidiano conteggio aritmetico dei contagiati, dei ricoverati, dei morti e dei guariti.
Un errore di comunicazione, si potrebbe dire, non fosse che l’obiezione tradisce un altro equivoco riconducibile alla mentalità del dopo. Nella gestione di una crisi senza precedenti come l’attuale, infatti, la comunicazione non è un elemento che possa intervenire a posteriori, ma rappresenta la gestione stessa della crisi. Ed è pressoché inconcepibile che, in un Paese che negli ultimi decenni ha ossessivamente investito sulla formazione universitaria dei comunicatori, non si sia subito avvertita la necessità di fornire informazioni semplici, chiare, prive di contraddizioni. Rispetto al sovrapporsi di voci e disposizioni, la risposta dei cittadini è stata molto più responsabile e compatta di quanto si potesse temere. Ma questo è un risultato di cui nessuno, al momento, può rivendicare il merito. Semmai, è l’eredità di una dignità che, nonostante tutto, non è mai venuta meno: di una cultura, ancora una volta, che gli italiani hanno costruito con la passione istintiva che scaturisce dal riconoscersi parte di una comunità.
Una cultura della cura fondata sul dialogo fra medicina e filosofia, una cultura dell’interiorità che renda meno insopportabile la prova del distanziamento e del confinamento domestico, una cultura degli affetti che si strutturi sulla consistenza dei sentimenti e non sulla volatilità delle emozioni. Non che tutto questo sia mancato o stia mancando in assoluto. È mancata, però, la consapevolezza che anche questo – specialmente questo – è cultura. In un intreccio tanto fitto inoltre, non può più essere marginalizzata la dimensione spirituale: quella cultura dell’invisibile, se così vogliamo definirla, che chiama in causa la presenza e il ruolo della Chiesa. Non è questione di rivendicazioni, ma di adesione alla realtà. Il cristianesimo non sarà una cultura, come giustamente avvertiva Mario Pomilio, eppure con la cultura condivide un atteggiamento di realismo radicale. Voler vedere le cose come sono, non illudersi di sapere, ammettere che c’è sempre qualcosa da imparare: questa è la direzione da prendere se non vogliamo rassegnarci alla cultura del dopo e al rimpianto dell’altrimenti.